Al di là della reazione degli abitanti e della solidarietà di tanti volontari, gli eventi accaduti in Romagna sono la tangibile testimonianza di quanto i nostri territori siano impreparati ad affrontare eventi meteorologici o geologici estremi. Più che in cielo, allora, è a terra, nelle ferite aperte, che occorre guardare. Individuare errori e manchevolezze, e partire di qui per pianificare un uso diverso dei territori, anche in vista delle mutate condizioni del clima e della biosfera

L’alluvione che ha flagellato la Romagna tra il 16 e il 17 maggio ha lasciato conseguenze pesanti in tutta la Regione. A un mese di distanza, l’emergenza è solo parzialmente rientrata e lascia il campo a dubbi e incertezze dal punto di vista economico, ambientale e sanitario.
La cosa che più sorprende, a detta dei testimoni, è la varietà di forme con cui l’acqua ti sommerge. A volte la vedi arrivare di colpo, con un’ondata furiosa. A volte cresce poco a poco, come una coltre che si dispieghi inesorabile, avvolgendo, uno strato dopo l’altro, i campi, le ferrovie, le strade, le case. Il paesaggio scompare sotto un manto color fango che si insinua in ogni fessura. Rotto l’argine, qualsiasi gesto di resistenza di fronte alla gravità dell’acqua è inutile. L’unico scampo è fuggire, trovare un riparo, correre in alto il più veloce possibile.
Gli occhi di chi racconta hanno ancora il riflesso di questa marea inarrestabile o delle frane che hanno tempestato i declivi. E sarà difficile dimenticarsene. Perché l’alluvione avvenuta in Romagna a maggio è stata davvero un evento eccezionale, che nessuno, da queste parti, aveva mai sperimentato. Nemmeno i più vecchi ricordano un disastro tale. A leggerli, i dati sono impressionanti: in sole 36 ore sono piovute sulla regione precipitazioni che in media cadono in una stagione, provocando oltre 400 frane in Appennino, da Rimini a Bologna, e l’esondazione di 23 fiumi in pianura, con 16 vittime e migliaia di sfollati. La furia della pioggia ha travolto tutto: rive, colline, città e campagne. E a guardarlo ora, a quasi un mese di distanza, il territorio romagnolo appare uscito da una guerra. Crivellato di crolli sui pendii, impastato di argille in pianura, il paesaggio ha cambiato forma, come sconvolto da un ordigno di incommensurabile potenza.

Dalla montagna alla pianura
Il viaggio dall’Appennino alle pianure è uno zigzagare continuo tra frane e fangose carrarecce. Molti paesi e borghi in collina sono rimasti a lungo isolati. Altri, a settimane dall’evento alluvionale, sono ancora raggiungibili a stento, con complesse circonvoluzioni per strade secondarie. Ranchio, Modigliana, Sorrivoli, Monteleone: ecco alcuni dei nomi della miriade di paesi e borghi colpiti da frane e smottamenti. Ad attraversarli, si tocca con mano l’entità del disastro. Strade incrinate dal furore delle acque; ponti sbriciolati lungo forre e pendii. Gli abitanti hanno continuato a resistere nelle settimane di isolamento, e ora si affaccendano puntellando qua e là la terra che cede. Uno sforzo enorme, in cui i macchinari, date le condizioni spesso impervie, svolgono solo una parte dei lavori di ripristino.

Il compito più duro, del resto, è ora fare il conto dei danni, delle attività perse e di quelle da ricostruire. La distruzione è vasta e molteplice, e va dalle coltivazioni abbattute o sepolte al danneggiamento di magazzini, allevamenti, ristoranti e strutture di ospitalità turistica. Per quanto sia ancora prematuro fare un bilancio definitivo, si può intuire quanto l’economia delle regioni collinari e montane, già messa a dura prova da decenni di spopolamento, sarà ulteriormente incrinata dal disastro.
«Turismo e ristorazione colmavano i vuoti di un’agricoltura e di un allevamento che non rendono più come un tempo», dice Fabio, gestore di un agriturismo sulle colline di Cesena. «Ma quest’anno, con le strade interrotte e i danni alle coltivazioni, sarà molto difficile ripartire».
Mano a mano che si scende verso la pianura, i crolli e le frane lasciano posto alle croste di argilla nei campi e ai refoli di melma ridotta in polvere ai bordi delle strade. A quasi un mese dall’alluvione, alcuni quartieri di Forlì e Faenza hanno ancora acqua e fango nelle cantine e nei garage. A estrarre gran parte della melma dalle case, con abili passamano di secchi, sono state squadre di volontari e volontarie pervenute da tutta Italia, che hanno lavorato per giorni e giorni, armate di pale, carriole e secchi, nel tentativo di supplire alla scarsità di macchinari e pompe idrovore. Un bel gesto di solidarietà, che non cancella però dalla memoria di molti le manchevolezze istituzionali e che appare ancora più rivelatore nel momento stesso in cui il governo ritarda lo sblocco dei finanziamenti per gli aiuti.
«Con i mezzi giusti, in tre ore potremmo avremmo potuto compiere il lavoro fatto in tre giorni da tre squadre di volontari», dichiara Stefano, uno degli abitanti. «Ma mezzi e risorse erano sempre pochi, e dobbiamo davvero ringraziare tutti coloro che ci hanno dato una mano».
La stessa sensazione è ribadita da Marcella, mentre smista pacchi di alimenti e prodotti igienizzanti a famiglie alluvionate nell’hub dove si raccolgono le tante donazioni allestito alla periferia di Faenza: «Senza la fatica dei volontari e delle volontarie, la situazione sarebbe peggiore», afferma. «Molto peggiore».
Intanto, nelle vie più colpite, dove il livello dell’acqua, a ridosso degli argini, è arrivato talora a 3 o 4 metri, si affastellano ancora cumuli di masserizie, resti di mobilia, spaccati di vita a cui il fango ha sottratto dignità e memoria. La reazione degli abitanti è varia: c’è chi ripassa minuziosamente gli oggetti, cercando di salvarne il più possibile, e chi invece lascia perdere, gettando tutto come fosse un capitolo chiuso. Ad ogni modo, il loro destino è certo. Finiranno nelle immense discariche create attorno alle città e ai paesi colpiti: ettari di rifiuti accatastati, che chiazzano il territorio agricolo come marchi ingombranti di una perdita irreparabile.

foto di Pier Luigi Fagioli, come l’immagine in apertura

Verso la foce
Conselice si annuncia a chilometri di distanza. L’odore acre e pungente penetra le narici già da Sant’Agata del Santerno, un altro dei paesi della provincia di Ravenna alluvionati, e si fa sempre più intenso mentre ci si avvicina. Per una sciagurata coincidenza di fattori, il paese, balzato alle cronache come emblema di quest’alluvione, è stato allagato da una coltre di acqua stagnante per più di dieci giorni. Un’enormità di tempo, che ha messo in allarme le autorità sanitarie e spinto a proporre l’evacuazione degli abitanti. Ora le acque si sono ritirate, ma la loro presenza rimane in quest’aria che sa di argilla, fogna e gasolio.
«Fino a qualche giorno fa, la puzza era ancora più intensa», afferma Luca, uno dei volontari accorsi. «E ci dovevamo muovere con molta circospezione, armati di occhiali e mascherine. Ora il pericolo è meno visibile, ma sempre presente. Chissà quanta porcheria c’era in quest’acqua. E adesso il fango diventa polvere, e vola dappertutto».
Quello dell’inquinamento residuo sarà uno dei problemi più importanti da affrontare. Fertilizzanti, pesticidi, gasolio, liquami tossici e altre sostanze presenti nei magazzini agricoli e nelle aziende colpite sono stati dispersi dalla furia delle acque nei corsi d’acqua e nei campi coltivati. E le prime stime sono inquietanti. Circa il 40% dei campi coltivati in Romagna è stato compromesso dall’alluvione. Per ora, i danni accertati sono quelli più visibili: la spessa crosta di fango rimasta nelle campagne, che impedisce la percolazione delle acque e mette a rischio migliaia di ettari di colture. Ma molti sanno che il vero pericolo è nello sversamento sui campi di sostanze tossiche. E verificare la salubrità dei suoli e dei prodotti agricoli sarà un lavoro lungo e paziente, di cui nessuno, finora, ha compiuto una stima concreta.
Proseguendo verso la foce, i fiumi continuano a trasportare fango e liquami, e così sarà ancora per giorni. In riviera, nel frattempo, aleggia la preoccupazione. Lo scarso ricambio d’acqua nell’alto Adriatico e i fondali bassi e sabbiosi favoriscono la sedimentazione di reflui e contaminanti. E a rischio, oltre alla salute di ecosistemi costieri già messi a dura prova da decenni di cementificazione, inquinamento ed erosione, ci sono le economie della pesca e dell’acquacoltura.
«A pochi chilometri di qui, nel Destra Reno, una decina di giorni fa sono morte migliaia di pesci. Nelle piallasse di Ravenna, c’è stata una morìa di cozze e vongole. Pensi che la gente avrà voglia di fare il bagno, ora?», si chiede Marta osservando l’acqua torbida sulla spiaggia di Casalborsetti. Siamo appena all’inizio della stagione turistica. E nessuno, nonostante i proclami ottimisti della Regione, ha il coraggio di fare pronostici.

Un bagno di lucidità
Con una metafora forse spietata ma efficace, c’è chi parla del disastro alluvionale come di un bagno di lucidità. A pensarci bene, la provocazione non pare esagerata. Al di là della reazione degli abitanti e della solidarietà di tanti volontari, gli eventi accaduti in Romagna sono la tangibile testimonianza di quanto i nostri territori siano impreparati ad affrontare eventi meteorologici o geologici estremi. Più che in cielo, allora, è a terra, nelle ferite aperte, che occorre guardare. Individuare errori e manchevolezze, e partire di qui per pianificare un uso diverso dei territori, anche in vista delle mutate condizioni del clima e della biosfera.
Gli strumenti non mancano. In un bel libro uscito nel 2019 (L’equazione dei disastri, Codice edizioni), ad esempio, il fisico e climatologo Antonello Pasini descrive il rischio di un territorio come il prodotto di vari fattori: la pericolosità, ovvero l’intensificarsi di eventi atmosferici estremi; l’esposizione, ovvero la presenza di centri abitati in aree esposte a pericoli atmosferici o idrogeologici; la vulnerabilità, ovvero l’inadeguatezza degli insediamenti e delle infrastrutture rispetto all’intensificarsi di eventi estremi. Tra il 16 e il 17 maggio del 2023, la Romagna ha concentrato, elevandoli a potenza, tutti questi fattori di rischio. Un evento meteorologico violentissimo, generato forse dai mutamenti del clima in corso, si è abbattuto infatti su uno dei territori più densamente abitati e fragili dal punto di vista idrogeologico dell’intera penisola. I suoli impermeabilizzati dalla siccità che aveva flagellato la regione nei mesi precedenti hanno favorito il ruscellamento delle acque. Le tante aree cementificate in collina e in pianura, pure, facendo aumentare la massa d’acqua e la sua velocità di scorrimento. L’alterazione degli alvei fluviali operata negli ultimi decenni, con la canalizzazione in alvei sempre più angusti, ha fatto il resto. Il risultato è un territorio estremamente vulnerabile, esposto come mai prima alla volubilità del clima e dei fenomeni idrogeologici.
A fronte di questa vulnerabilità e dei numerosi avvertimenti, fa impressione constatare quanto poco si sia fatto in questi anni per adeguare e mettere in sicurezza i territori. Pochi adeguamenti, nessuna misura significativa di riduzione del rischio. E un’ostinazione pervicace nel promuovere investimenti nell’economia fossile, in nuove urbanizzazioni, grandi opere e infrastrutture. Nella regione con il maggior tasso di consumo di suolo in aree ad alta e media pericolosità idraulica, anche le leggi specifiche, da questo punto di vista, possono diventare armi a doppio taglio: l’articolo 53 della legge 24/2017 dell’Emilia-Romagna sul consumo di suolo prevede infatti una deroga alle limitazioni per ragioni di pubblico interesse. E tra queste ragioni, figurano la costruzione di nuove arterie stradali e di grandi poli logistici.
Resta così aperto il dibattito su quale modello di gestione territoriale si debba promuovere dopo la catastrofe. Da una parte c’è un fronte compatto di forze politiche e attori economici, che intende proseguire sullo stesso solco dei decenni passati, conferendo alla produzione e distribuzione di merci e alla rendita immobiliare la massima priorità. Dall’altra movimenti che esigono un cambio di rotta, fatto di attenzione per le dinamiche degli ecosistemi e la sicurezza dei territori. Quest’ultima è l’idea che ha portato migliaia di persone a manifestare a Bologna. E questa è l’idea che comincia a serpeggiare anche tra le migliaia di abitanti alluvionati.
«Dicono che ricostruiranno tutto come prima. Ma se siamo qui a leccarci le ferite e a fare il conto dei danni, non sarebbe opportuno pensare a costruire meno e meglio?», si chiede Franco, mentre osserva l’acqua che risale dai tombini intasati dal fango dopo un temporale alla periferia di Forlì. Una domanda sensata, la sua. Che riassume, con logica esemplare, una serie di problemi con cui società e politica dovranno prima o poi fare i conti.

Gli autori:
Andrea Fantini ha studiato scienze geografiche, ambientali e agro-forestali alle università di Bologna e Barcellona. Ricercatore, fotografo e comunicatore scientifico, è autore del libro Un autunno caldo: crisi ecologica, emergenza climatica e altre catastrofi innaturali (Codice Edizioni, 2023).

Pier Luigi Fagioli è un fotografo impegnato da tempo nella documentazione di questioni ambientali e sociali.