Il 28 luglio Saridewi salirà sul patibolo per essere uccisa dal proprio Paese, che non considera soluzioni alternative al carcere e alla forca per contrastare il traffico di stupefacenti. Nella ricca e modernissima città Stato i diritti umani sono completamente negati. Su Left di questo mese lo documenta un ampio e scioccante reportage

Sono due le impiccagioni di questa settimana a Singapore, un uomo e una donna. La ricca isola del sud-est asiatico ripropone implacabile il brutale copione che negli ultimi trent’anni ha scandito i momenti finali di oltre cinquecento condannati a morte. La notifica di esecuzione con sette giorni di anticipo. I disperati tentativi di ricorso in un Paese che, secondo quanto riportato da Human Rights Watch e Amnesty International, ostacola le opportunità di difesa e accesso alla consulenza legale dei detenuti. Un ultimo pasto e infine il cappio intorno al collo. I condannati non vedono sorgere il sole, le esecuzioni avvengono fra le mura della prigione di Changi.
Saridewi Binte Djamani ha 45 anni. Tossicodipendente, nel 2016 è stata arrestata per possesso e presunto traffico di 30,72 grammi di eroina, un reato che in Italia comporta almeno 6 anni di carcere. Ma a Singapore la pena di morte è obbligatoria anche per il traffico di droghe leggere, e nel 2018 la donna è stata condannata a morte. Ha trascorso i suoi ultimi 5 anni in isolamento nel braccio della morte, e venerdì 28 luglio salirà sul patibolo per essere uccisa dal proprio Paese, che non considera soluzioni alternative al carcere e alla forca per contrastare il traffico di stupefacenti.
La prigione di Changi non rilascia informazioni complete sui prigionieri, ma secondo Transformative Justice Collective (Tjc), un’organizzazione locale per la difesa dei diritti umani, sono probabilmente due le detenute in attesa del boia, che non impicca una donna dal 2004.
L’altro condannato è Mohd Aziz bin Hussain, un singaporiano di origine malese. Aziz è già morto. La sua esecuzione è avvenuta alle 6 del mattino di oggi (mezzanotte ora italiana). Durante il processo ha dichiarato di essere stato intimidito e costretto a confessare il traffico di circa 50 grammi di eroina con la promessa di una riduzione della pena, ma durante il processo il giudice non ha reputato veritiero questo accordo. A Singapore l’avvocato non è presente durante l’interrogatorio, non esiste il diritto a restare in silenzio, e i costi personali imposti a chi difende i condannati a morte scoraggiano molti difensori dall’accettare casi capitali.
Queste nuove impiccagioni arrivano dopo l’esecuzione di altri due uomini per traffico di un chilogrammo di cannabis. Arrivano dopo uno scandalo che ha coinvolto la prigione di Singapore e l’ufficio del Procuratore Generale, accusati di aver letto la corrispondenza privata fra detenuti e avvocati. Nel frattempo, continua la pacifica ma ferma battaglia di molti cittadini di Singapore contro la politica di tolleranza zero del proprio paese. In mille hanno firmato per richiedere una moratoria sulla pena di morte.
Solo il Presidente di Singapore, su avviso del Gabinetto, può concedere la grazia ai condannati. Ma per i reati di droga questo non avviene da circa trent’anni, e il Governo sembra intenzionato a mantenere in essere uno dei sistemi penali più duri e severi al mondo.
Left ha approfondito l’argomento in questo reportage in edicola fino al 3 agosto: Il lato oscuro di Singapore.

Singapore, foto di Piero Zilio