Anthony Graves per quasi 19 anni ha lottato per riuscire a dimostrare la propria innocenza. Oggi racconta la crudeltà delle carceri Usa: «La mia vita ora è dedicata a correggere un sistema giudiziario che è il più grande criminale del nostro Paese». Anteprima de "Il fattore umano" andato in onda l’11 settembre su Rai3 (ora su RaiPlay)
L'architettura delle metropoli americane non è certo timida nella messa in scena del potere dello Stato. Houston, con il suo quartiere dei tribunali, non fa eccezione. Qui, gli edifici sembrano sfidarsi in un tacito braccio di ferro architettonico, per stabilire quale meriti il titolo di supremo custode della Legge. C’è il tribunale minorile, l’edificio dove vengono selezionati i giurati, la Corte civile, quella storica del 1910 - solenne e maestosa - e la Corte penale, dove si sentenzia la pena capitale. Oltre il fiume, alcuni murales raffiguranti la Giustizia - con la sua spada, la bilancia e la benda sugli occhi, ma qui è nera e porta i capelli cotonati. Anthony Graves attende l’intervista in un bar sotto una vecchia torre dell’orologio. A lui, che ha passato quasi 19 anni nel braccio della morte, si chiede se la percezione del tempo lo turbi. Graves risponde con lo sguardo di chi ha visto i giorni diventare anni e gli anni decenni, mentre lottava per dimostrare al mondo la sua totale innocenza. «Sono entrato nel braccio della morte nel 1994 e quando sono tornato a casa, quasi 19 anni dopo, per me era ancora il 1994», dice. «Vivi rinchiuso per 22 ore al giorno, in uno spazio che non sarà più largo di 2-3 metri. E questi giorni sono stati 6.640. Studi il tuo caso senza tregua, scrivi lettere disperate. Ma spesso, finisci col girare in tondo nella tua cella. L’isolamento forzato spezza la tua voglia di vivere e ti fa impazzire. Succede di continuo».
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login