La data dell’8 settembre 1943 resta incisa nella memoria degli italiani come sinonimo di incertezza, confusione, caos. L’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, siglato qualche giorno prima a Cassibile, in provincia di Siracusa, giunse al termine di eventi che nell’estate avevano già profondamente turbato l’opinione pubblica nazionale: il 10 luglio lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, il 25 la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini. In poche settimane l’esercito tedesco si ritirava dal Mezzogiorno per attestarsi lungo la linea difensiva Gustav, non prima di aver consumato alcune stragi come quella del 12 agosto a Castiglione di Sicilia con 16 morti e quella del 6 settembre a Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria, dove i morti furono 17, e non prima di aver anche saggiato la rivolta delle popolazioni meridionali, come a Matera il 21 settembre e una settimana dopo durante le famose Quattro Giornate di Napoli.
Nelle stesse ore in cui, alle prime luci del 9 settembre, il re e il maresciallo Pietro Badoglio con un seguito di alti ufficiali e dignitari lasciavano ignominiosamente Roma alla volta di Pescara, gettando nello scompiglio e senza più ordini l’esercito, altrove si preparava il terreno per sconfiggere il nazifascismo e riscattare l’onore nazionale. Sulle montagne del Centro e del Nord Italia si andavano organizzando i primi gruppi di resistenti ai quali, secondo una troppo semplificata storiografia, si aggiungevano i militari meridionali sbandati che si trovavano nell’impossibilità di restituirsi alle proprie famiglie. In verità la prima formazione garibaldina in Piemonte nasce la sera stessa del 9 settembre a Barge, in provincia di Cuneo, per opera di un siciliano, Pompeo Colajanni di Caltanissetta, che è entrato in contatto con il torinese Ludovico Geymonat, un professore di filosofia interdetto dall’insegnamento per aver rifiutato l’adesione al fascismo. Il gruppo è composto da circa ottanta militari, quasi tutti meridionali; Colajanni prende nome di battaglia Barbato in memoria di Nicola Barbato, medico, socialista e organizzatore delle lotte contadine di fine ‘800 in provincia di Palermo, e costituisce il Battaglione “Carlo Pisacane”, marcando l’inequivocabile nesso tra la guerra partigiana e il Risorgimento meridionale.
Con Barbato sono, tra gli altri, il pugliese Giovanni Latilla che diverrà comandante della VI Divisione Garibaldi “Langhe” e Vincenzo Modica di Mazara del Vallo che, con il nome di battaglia Petralia, sarà comandante della I Divisione Garibaldi “Piemonte” e avrà l’onore di portare la bandiera nella manifestazione conclusiva dell’esperienza partigiana il 6 maggio del 1945 in piazza Vittorio Veneto a Torino. Senza le capacità e i mezzi di cui disponevano i militari “sbandati” la Resistenza non sarebbe stata quella che conosciamo. La massima concentrazione partigiana in Piemonte è una conseguenza della dissoluzione della IV Armata rientrata dalla Francia dopo l’invasione del giugno 1940, al comando del generale Raffaello Operti. In Piemonte il Cln dispone dei fondi necessari per finanziare la guerriglia proprio grazie alle casse che il generale ha messo a disposizione convocando una riunione, presieduta dal suo aiutante, colonnello Reisoli, all’Albergo Venezia di Lanzo. Vi partecipano, oltre ad alcuni esponenti politici locali, i capi militari che già il 9 settembre si sono portati a Piano Audi, una località di montagna nel comune di Corio Canavese. Tra di loro Girolamo Rallo di Catania, che guida il gruppo Etna, e il comandante Aldo Barbaro di Catanzaro che verrà massacrato dai fascisti nel successivo aprile insieme a undici dei suoi uomini. Rallo e Barbaro hanno entrambi scelto di formare delle bande partigiane autonome dai partiti; non così un altro calabrese, Giuseppe Rije di Celico appartenente a una famiglia di antiche tradizioni democratiche che, con una trentina di uomini, è entrato in contatto con il gruppo del comunista Nicola Grosa, uno dei più attivi e generosi partigiani piemontesi. Cadrà in un agguato tesogli nel febbraio del ’44.
Ancora tra gli uomini che subito dopo l’8 settembre si sono portati a Piano Audi è Saverio Papandrea di Monteleone, l’odierna Vibo Valentia; sacrificherà la propria vita l’8 dicembre a Forno Canavese per coprire la ritirata dei suoi compagni nella prima battaglia in linea della storia della Resistenza, la battaglia di Monte Soglio. In Valsusa è il maggiore Luigi Milano di Lanciano a dare il via alla Resistenza subito dopo l’annuncio dell’armistizio; morirà qualche anno dopo a causa delle sevizie subite dopo la cattura, mentre cadrà in combattimento un altro comandante abruzzese, Sergio De Vitis di Lettopalena. Anche al di fuori del Piemonte i meridionali marcano la loro presenza subito dopo l’8 settembre. In Emilia è il calabrese Dante Castellucci a guidare, insieme ad Aldo Cervi, la prima spedizione partigiana sull’Appennino reggiano; e in Liguria Piero Borrotzu, sardo di Orani, insieme al corregionale di Cagliari Franco Coni, costituisce la Brigata d’assalto “Lunigiana”. Borrotzu verrà fucilato dai nazifascisti nell’aprile del ’44 nello Spezzino, a Chiusola di Sesta Godano, consegnandosi spontaneamente ai suoi carnefici per evitare il massacro di persone innocenti; Coni, nel dopoguerra, parteciperà alla fondazione del PSIUP.
Molte di queste storie sono poco conosciute perché ebbero per teatro le regioni del Centro-Nord e gli uomini che vi presero parte, quando non persero la vita, tornarono nel dopoguerra alle loro città di origine dove quella grandiosa epopea, con il corollario di indicibili sofferenze subite dalla popolazione civile, non era stata vissuta e ancor oggi, ottanta anni dopo, non è ben compresa e accolta come autenticamente propria.
L’autore: Pino Ippolito Armino ingegnere e giornalista, dirige la rivista “Sud Contemporaneo” e fa parte del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Tra i suoi libri, “Il fantastico regno delle due Sicilie” (Laterza 2021)