Un post-it mi ricordava: su Rai 5, domenica 3 settembre 2023, ore 10, seguire i tre candidati finalisti della 64esima edizione del Concorso pianistico Ferruccio Busoni.
Non ho così particolare cultura musicale: ma questa, che è stata la prima volta di diretta e di diffusione in mondovisione del concorso, ho realizzato, è un vero evento, il cui significato parla d’arte nel mondo, anzi di dialogo d’arte. In nome di Busoni, continuando il pensiero cui l’artista aderiva, tradizioni e creatività sono raccolte e rilanciate, in un moto perpetuo di cui sono testimoni precipui i giovani musicisti, in particolare i tre giunti a questa finale. Dunque sì, ho seguito e ho creduto di avvertire: ma molti conoscenti già sapevano, e le osservazioni si sono incrociate. Nella trasmissione si sono alternati i momenti concertistici nella sala del Teatro Comunale di Bolzano, proposti dai tre giovani finalisti – l’americano Anthony Ratinov, il russo Arsenii Mun, il giapponese Ryota Yamazaki: la giuria ha infine attribuito il premio infine a Arsenii Mun – con le narrazioni condotte nel foyer dai due conduttori, Francesco Antonioni e Elena Biggioggero, infine con gli inserti dalla città di Bolzano, gli interni delle famiglie ospitanti, i luoghi delle esibizioni pubbliche.
Ma è la diretta mondiale che dà slancio particolare a questa edizione: sdoganando e proponendo ad una vasta riflessione, l’abbinamento di due nomi caratterizzati dall’essere posti “à l’écart”, Bolzano e Busoni. Il che dà risalto a risvolti storici che interpellano la convivenza nel mondo, pagine di narrazione che non risultano mai abbastanza centrate e esaurienti. L’evento prese le mosse nel 1949, a opera di Cesare Nordio: triestino, la sua biografia di cittadino e musicista era varia, certo partecipe alle molte vicende storiche del Paese, all’epoca. Dal 1948 direttore del Conservatorio Monteverdi di Bolzano, l’anno successivo fondò il premio pianistico per giovani, onorando i 25 anni dalla scomparsa di Ferruccio Busoni (1866-1924). Era divenuto consapevole di come il pur grandissimo Ferruccio Busoni, fermamente estraneo ai furori nazionalistici che dallo scorcio del XIX secolo imperversano, rischiava di essere tagliato fuori della memoria. È così, infatti: sono ristrette sia la memoria della creatività di Busoni, e quindi la sua comparsa nei cartelloni, sia la narrazione delle sue scelte di vita.
Per me vivere a Empoli, dove è stata salvaguardata la casa dove Ferruccio Busoni nacque – nel 1958 fu presa a cuore dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che la inaugurò poi nel 1961, così che oggi è inserita nel Sistema museale Case della Memoria in Toscana – dà un interesse costante a alimentare e confrontare notizie sull’artista, anche se, pur tornato più volte, egli si formò in ambiente triestino, quello della famiglia materna: era allora la Trieste grande porto per Vienna, e crocicchio di tradizioni.
Approfitto per allargare via via le notizie, e consolidare il ritratto morale dell’artista. Che è, in primo luogo, quello di un formidabile, organizzato lavoratore: se il detto di Cesare Pavese, “Lavorare stanca”, suona intriso di riluttanza, di una nobiltà fittizia, si potrebbe rovesciare per Busoni, in “Lavorare realizza il soggetto nel profondo”: ma egli era vissuto tra altri fermenti, circa quaranta anni prima. Colpisce, in effetti, come ogni intervallo imprevisto di tempo che all’uomo capitasse, nelle incertezze e i vuoti degli appuntamenti, diventasse occasione di appunti e prove, anche silenziose.
Busoni seguì alcune linee di attività, di diversa rinomanza. Il massimo di notorietà ebbe la sua vita di concertista e di insegnante, presso istituzioni o nel privato. Ma si intonò a questo aspetto la sua attività di trascrittore, via, per lui, di entrare nello specifico modo con cui gli autori si erano adattati alle strumentazioni e agli ambienti del comporre in tempi diversi, in qualche modo storicizzandone il gusto, rivitalizzandolo e preparandosi a prenderne distanze modulari per dedicarsi in consapevolezza al proprio comporre. Al vertice degli studi del trascrittore, e specialmente in quanto organista, si staglia Bach. Tra gli equivoci che hanno coperto la notorietà di Busoni, c’è quello che il lato del trascrittore sia predominante. Invece non è così, e la sua produzione originale è ampia, innovativa, capace di ottenere frutti originali dai germi più vari, sempre comunque indagati nel profondo.
Se c’è un aspetto che colpisce l’ascoltatore di Busoni, è lo sviluppo cosmopolita delle composizioni – come cosmopolita era il suo ascolto dei popoli, e la sua capacità plurilingue di esprimersi. I popoli fiorivano, almeno dalla fine del Settecento: non solo nel Mediterraneo della Grecia e dell’Italia. Una fitta diplomazia, più forte delle armi, una partecipazione accorta delle masse e degli intellettuali, premevano per portare all’indipendenza compagini, come i norvegesi, come i finlandesi cui si ascriveva la famiglia della moglie Gerda Sjöstrand. Come i nativi d’America, che Ferruccio Busoni tenne presenti nelle numerose tournée in Usa fatte tra Otto e Novecento, e comunque prima che scoppiasse la Grande guerra. Nel 1910, in occasione dell’ultimo giro statunitense, Busoni ritrovò l’allieva Natalie Curtis, e, scrivendo alla moglie, la informò dell’imponente ricerca sulla musica dei Nativi che essa aveva compiuto. Anzi, nel 1907 aveva pubblicato ricerche etnologiche, The Indians’ Book. Di qui Busoni prese le mosse per studi, trascrizioni, e più tardi per compiute sue rielaborazioni di musiche indiane.
La guerra, le scommesse di distruzione e di potere che essa comportò erano l’antitesi dello studio per la convivenza, che questo artista propugnava: mettendo a disposizione la sua capacità di ascolto e rielaborazione, di riprove infinite. Volle il campo neutro, trasferendosi da Berlino a Zurigo. Bene attento alle domande d’arte in ogni campo, e al bisogno di innovazione che in molti esprimevano, non ammetteva tuttavia che in nome del nuovo si ignorasse la continuità dello sviluppo artistico.
Tra gli innovatori in pittura, strinse una relazione profonda con il giovane Umberto Boccioni, cui si devono tele importanti dedicate a Ferruccio Busoni, onorandone profondamente la memoria quando il giovane morì, vittima di un banale incidente. Nelle opere teatrali Busoni meditò a fondo sulle tradizioni e gli ambienti italiani: disegnò in Parma un episodio importante del suo Faust, maturato in un arco lungo di considerazioni, cui non fu estranea la meditazione su Leonardo da Vinci – allora, in Italia e in Europa, in molti ne facevano oggetto di ricostruzioni e approfondimenti. E per Busoni, la cui famiglia proveniva dal territorio dell’artista rinascimentale, specifico era l’interesse –. Così, fu sintesi di tradizioni e mentalità condivise nel tempo l’Arlecchino ovvero le finestre. Capace, come ho detto, di essere poliglotta, in prevalenza Ferruccio Busoni scrisse in lingua tedesca le opere letterarie: e, mi dicono, merita per queste di essere considerato un grande autore. Peccato, allora, che non si sia ancora trovato come trasporle in buona traduzione italiana. Forse non ci sentiamo ancora preparati a seguire una disseminazione d’arte che fu ampia e generosa.
Tra i suoi allievi, anche Kurt Weill: dopo la fine della guerra, quando, riordinata da Gerda, fu ancora la casa di Berlino che ospitò la famiglia dell’artista: per pochi anni ancora, prima che le malattie ne interrompessero il pensiero e la laboriosità. È appunto a Berlino l’Archivio delle sue opere, in parte disperse tra gli eventi accaduti nel XX secolo. Oggi, pensarlo nelle atmosfere attuali torbide e feroci, vuole essere momento che impugna solidamente la speranza: di cercare, e individuare, gli spazi e i modi della convivenza. Come sapeva fare Busoni, artista e filosofo delle modulazioni e rimodulazioni: per adattarsi, non per soffocare.
L’autrice: Franca Bellucci, storica e saggista, ha coordinato il lavoro per il volume I secoli delle donne (Viella)