Il 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa persero la vita 368 persone. In questi dieci anni ne sono accadute molte altre senza che il volto disumano delle politiche dei respingimenti cambiasse. Il nuovo libro di Left mette in rete il lavoro di chi si oppone a questa inaccettabile negazione dei diritti umani

Il 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa persero la vita 368 persone. In questi dieci anni ne sono accadute molte altre senza che il volto disumano delle politiche dei respingimenti cambiasse. Anzi si è ulteriormente inferocito con il governo Meloni attraverso il decreto Cutro, con l’annunciata costruzione di nuovi Cpr, (campi di detenzione per persone che non hanno commesso nessun reato e dove possono essere trattenute fino a 18 mesi), con la richiesta di un pizzo di Stato di quasi 5mila euro inflitta a migranti che già hanno dovuto pagare gli scafisti e patire torture nei lager libici e nelle deportazioni ordite da Said, l’autocrate tunisino con cui abbiamo siglato un memorandum che è un manifesto di crudeltà.
Per gridare con forza la nostra opposizione a tutto questo abbiamo riunito le voci di colleghi giornalisti, autori di importanti reportage, di demografi sociologi, antropologi e attivisti. Da questa collaborazione nasce il libro Lampedusa isola aperta, edito da Left e curato da un esperto di immigrazione come Stefano Galieni.

Ecco l’introduzione
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Quella mattina del 3 ottobre 2013 la notizia giunse tragica e violenta. All’epoca non collaboravo ancora con Left, le cose che riuscii a scrivere sono sepolte in siti, comunicati stampa, messaggi ormai persi. Capimmo subito che l’imbarcazione, partita dal porto libico di Misurata, carica di persone in fuga dal regime eritreo, conteneva centinaia di persone. Sentimmo le parole dei pescatori, che videro a poche miglia da Lampedusa, la nave piegarsi e affondare, e che fecero il possibile per trarre a terra i superstiti. Il bilancio definitivo fu di 368 vittime, 20 dispersi e 151 salvati. Fu allora, una delle peggiori stragi consumatesi nel Mediterraneo. Le immagini non si dimenticano, dalle fila di bare, molte bianche in un hangar, allo strazio di chi, sopravvissuto, aveva visto sparire i propri cari. Era una tragedia annunciata, come tante che seguirono. Da anni Lampedusa, ultimo avamposto della fortezza Europa, era divenuta il luogo in cui cercare salvezza da guerre, dittature, sfruttamento, persecuzioni, o per trovare, semplicemente, ciò che per ognuno dovrebbe essere diritto inalienabile, la libertà. Per giorni si parlò non solo di trafficanti o della crudeltà del mare, nemmeno di fatalità ma, finalmente, dell’ingiustizia con cui si nega il movimento delle persone non gradite, verso l’Europa. Esponenti delle istituzioni italiane ed europee espressero indignazione, problematizzarono l’assenza di soccorsi, criticarono persino le leggi proibizioniste che negli anni passati avevano essi stessi scritto e attuato, come la Bossi Fini, come il “pacchetto sicurezza Maroni”. Pochi giorni dopo, l’11 ottobre, un altro naufragio, 268 morti in quella che venne ricordata come “la strage dei bambini”. Furono tanti i minori a perire nelle acque maltesi nel colpevole ritardo dei soccorsi. L’allora governo italiano decise di dare vita ad un’azione unilaterale meritevole, un’operazione di monitoraggio e salvataggio, che si spinse in prossimità delle coste libiche, da cui partiva gran parte delle persone. Venne chiamata Mare nostrum e, in meno di un anno, portò in salvo 190mila persone. Ma montarono proteste interne contro la missione, si criticarono i costi, 9.5 milioni di euro al mese, 0,16 euro per abitante italiano. La destra arrivò a considerare l’intervento come incentivo alle partenze, pull factor. Le proteste più forti giunsero dall’Unione europea. Chi arrivava in Italia, nonostante il regolamento Dublino, cercava poi di andare in Paesi in cui le prospettive erano migliori. Nel novembre dell’anno dopo, Mare nostrum venne dismessa e sostituita da una missione di Frontex, l’agenzia europea incaricata di controllare le frontiere e limitare gli ingressi “illegali”.
Diminuirono gli interventi in prossimità delle coste di partenza e si strinsero accordi con i Paesi di provenienza per esternalizzare le frontiere. Nel marzo 2016 con il patto fra Turchia e Ue, per fermare e rimpatriare i profughi che fuggivano soprattutto dalla Siria, il governo di Erdoğan ricevette 6 miliardi di euro. Nel febbraio 2017 il governo italiano sottoscrisse una “lettera di intenti”, (Memorandum of understanding) con il governo di Tripoli, che controllava solo alcuni territori occidentali della Libia. Cooperazione militare, addestramento, motovedette in regalo, in cambio dell’impegno a fermare le navi di chi provava a fuggire, in gran parte persone dell’Africa subsahariana e a detenerle. Il Memorandum è ancora in vigore e ha permesso di respingere, spesso illegalmente, in 5 anni oltre 100mila persone.
L’elenco di quanto accaduto poi richiederebbe ben altro spazio. Si iniziò a criminalizzare la solidarietà anche attraverso i “codici di condotta”, varati dal 2017 ad oggi per limitare o bloccare l’azione delle navi delle Ong scese in mare per supplire all’assenza istituzionale. E poi i decreti Salvini nel 2018, il tentativo di dare una cornice europea alla chiusura dei confini, i muri e i fili spinati che si ergevano tanto ai confini esterni che in quelli interni, risorse gettate per creare solo morti e sofferenze, per giungere al cosiddetto “decreto Cutro”, modo osceno per ricordare una strage dichiarando impunemente che “chi parte se l’è cercata”, alla dichiarazione dello stato di emergenza.
Il finale, per ora, è noto. Il 2023 è l’anno in cui, in 8 mesi, c’è stato il più alto numero di vittime nei naufragi dopo il 2017, almeno 3mila, in cui, nonostante la retorica securitaria, aumentano gli arrivi. Crisi economiche, devastazioni ambientali, guerre, di cui spesso le grandi potenze sono responsabili, producono, come effetto collaterale, mai riconosciuto, la ricerca della salvezza rischiando la morte, anche se il viaggio comporta il transito per luoghi di tortura come i centri di detenzione in Libia o la caccia al nero in Tunisia.
In questo libro di Left che leggerete, a cui hanno contribuito giornalisti, attivisti, europarlamentari, demografi, sociologi, antropologi e studiosi di altre discipline accomunati dall’impegno per i diritti umani, Lampedusa è uno dei luoghi. Ci sono reportage appassionati e documentati che rimandano alle tante rotte, spesso poco osservate, da cui le persone tentano di “bruciare le frontiere”: quella balcanica che parte dall’Afghanistan, di Ventimiglia, per fuggire dall’Italia, l’enclave spagnola di Ceuta e Melilla in Marocco, la giungla francese di Calais, per arrivare al Regno Unito, e al gelido confine fra Bielorussia e Polonia.
A questi si affiancano i contributi di chi ha incontrato il lavoro delle Ong, analizzato i nuovi Memorandum come quello, terribile, con la Tunisia, ma anche di chi prova ad ipotizzare un pianeta diverso da un presente di guerre e nazionalismi, in cui il diritto a migrare rientri fra le libertà individuali e gli impegni solidali, come quello di Mimmo Lucano, o di chi rischia la vita nelle navi umanitarie, non sia un crimine da punire e dileggiare, ma esempio di vita da trasmettere. Rileggendo i preziosi contributi, ringraziando ancora i colleghi di Left, dico con orgoglio che, insieme, abbiamo provato a fare e facciamo, un giornalismo diverso, capace di coniugare rigore e utopia. Un libro da conservare perché si continui a far sì, con ogni mezzo, che non ci si risvegli mai più con il dolore di altri 3 ottobre.

Nella foto di apertura la premier Meloni, il ministro Piantedosi e la presidente von der Leyen a Lampedusa il 17 settembre. La presidente del Consiglio non ha partecipato alla commemorazione della strage del 3 ottobre 2013, a cui ne seguì un’altra a distanza di pochi giorni