La Fiera del libro di Francoforte ha annunciato la sospensione della cerimonia di premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli per il suo libro “Un dettaglio minore” (La Nave di Teseo). Nei suoi libri Shibli racconta le conseguenze fisiche ed emotive dell’occupazione israeliana sui civili palestinesi. Raccomandiamo anche la sua raccolta di racconti “Pallidi segni di quiete”, e “Sensi” (Argo). Ecco l’intervista di Santoro per Left realizzata nel 2021 e apparsa nel numero di Left intitolato “Generazione Gaza“. Dopo l’inaccettabile attacco terroristico di Hamas in Israele e la violenta controffensiva di Tel Aviv contro Gaza, aiuta a capire le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza oppressi dal 1967.
«Confesso che qualche volta desidero di non provare nulla. Se permettessi ai miei sentimenti di emergere in superficie, sarei incapace di confrontarmi con questa atroce realtà». L’autrice palestinese Adania Shibli, nata nel 1974, voce importante della letteratura araba contemporanea e non solo, che vive soprattutto a Ramallah, parla da Berlino. Nello sguardo di Shibli si coglie il senso di vuoto davanti al panorama di rovine israeliane e palestinesi destinate a stratificarsi su quelle passate.
Nelle librerie italiane è arrivato il suo romanzo Un dettaglio minore (La nave di Teseo, traduzione di Monica Ruocco), già finalista al National Book Award 2020 e in corsa per il prestigioso Man Booker Prize.
Shibli ha dedicato dodici anni alla creazione della storia che si sviluppa in due tempi distanti uniti dal dolore e dal tentativo di trovare una lingua per esso. Il primo scenario è il deserto del Negev, un anno dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, dove militari israeliani di stanza nell’area per presidiare il confine con l’Egitto stuprano una giovane beduina, poi sepolta nella sabbia. Nel secondo tempo del romanzo una donna palestinese di Ramallah indaga sul crimine per restituire dignità alla vittima. Nel viaggio esplora l’attuale condizione di vita nei territori palestinesi.
Che cosa l’ha colpita della pronuncia della Corte suprema israeliana per l’allontanamento di quattro famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est?
La strada intrapresa corrisponde alla legalizzazione dell’ingiustizia. Per decenni è apparso che il sistema giudiziario israeliano agisse con maggiore equità, ma da anni registriamo un processo inverso anche nella nomina dei giudici della Corte suprema che è un organo fondamentale. Prima aveva un ruolo di contrappeso rispetto alle scelte politiche governative. Ora ha virato a destra. Lo spostamento ideologico conservatore ha permeato la giustizia.
Qual è la sensazione dominante?
Tento di essere razionale e di pensare a che cosa si possa fare per non percepirsi sconfitti e paralizzati. Ho paura che le ferite sempre più laceranti sprofondino i palestinesi nell’assenza di speranza. Quando le armi tacciono, la calma non significa pace ma resa disperata. È una depressione severa che consiste nella sfiducia di poter realizzare qualsiasi atto di svolta.
Intravede segnali per fermare l’escalation bellica?
La capillarità della violenza è penetrata nei gangli vitali delle nostre società, cominciando dallo sdoganamento di formazioni dell’ultradestra israeliana che negli anni Novanta erano bandite dal Parlamento. La sinistra israeliana è stata distrutta.
Dove conduce la strategia di Hamas?
Mi oppongo a qualsiasi forma di male inflitta agli altri compresi i metodi violenti adottati da loro. Il ricorso alla violenza riflette quella patita. Nessun uso di armi è giustificato e s’inquadra nella dinamica della crescente occupazione. I palestinesi dovrebbero rifiutarsi di riprendere i metodi per i quali soffrono. Le scelte e le azioni dei militanti a Gaza ricordano una definizione del contesto israelo palestinese di Murakami: un uovo che si schianta su un muro. L’uovo macchia la parete e si autodistrugge.
Da scrittrice, e donna palestinese, come si rapporta con il concetto di confine?
Mi interrogo sul modo in cui colpisce la scrittura. A che cosa la mia immaginazione, la libertà di movimento, e di conseguenza il linguaggio, hanno il permesso di accedere? Nel contesto israeliano parlare arabo può determinare l’esclusione e dunque la discriminazione. Nelle città la coesistenza tra israeliani e arabi israeliani era messa in discussione già prima di questa crisi con le disuguaglianze formali e sostanziali. Quando non si può articolare pienamente il linguaggio si rimane chiusi dentro un confine che diventa anche interiore.
Un dettaglio minore esprime il desiderio di guarire le ferite della storia, dando voce a chi non l’ha avuta?
Questo è il tema essenziale del romanzo. Quale voce possiamo offrire, quando il nostro linguaggio è guasto, pieno di paure? Nella seconda parte del libro, la donna si misura con questo tentativo di rimediare alla Storia, ma lei stessa deve maneggiare le proprie rovine. E non funziona. La voce che può restituire alla vittima della violenza è quella di una persona che fatica a dire la verità, perché è sempre stata costretta a nasconderla. Quando i palestinesi sono forzati nel descrivere il proprio dolore e i vissuti, mi rendo conto del fallimento. Non si può essere obiettivi sul proprio dolore.
In che modo ha creato il parallelismo tra le due donne?
La domanda è interessante ancora dal punto di vista linguistico. Siamo disponibili a descrivere il carnefice e la vittima con lo stesso linguaggio? È possibile che le parole abbiano la medesima funzione? La donna, volendo ricostruire la verità sulla violenza subita dalla giovane, testimonia come le stesse parole possano avere ruoli e realtà differenti pur nel medesimo contesto.
Lei ha sempre scritto in arabo?
Sì e mi sono chiesta se potesse essere usato contro di me. Ho varcato i confini interni e quelli imposti al linguaggio in termini di connessione tra le persone. Tra la popolazione sono state erette delimitazioni fisiche, psicologiche e linguistiche.
Nel romanzo compare spesso l’immagine dei check point.
È la quotidianità dei palestinesi alla quale non ci si può abituare. È una messa in stato di accusa. Provi un senso di alienazione che ti annulla.
Che cosa simboleggia il Muro nella West Bank?
La rottura di ogni legame dei palestinesi con la terra. Abbiamo perso qualsiasi familiarità e l’amore per il paesaggio.
È possibile raccontare Gaza?
L’accesso è talmente limitato che è difficile descriverla. Come può parlare Gaza e come possiamo ascoltare la sua sensibilità? È stata disconnessa anche dalla nostra immaginazione. La mia posizione non è nazionalistica. Vivere o visitare i territori palestinesi ti dà la dimensione di un’ingiustizia concreta dalla stessa quantità di acqua disponibile per una doccia.
In foto Adania Shibli, courtesy La Nave di Teseo