Il caso di Gianluca Grimalda, presentato dai media come il gesto stravagante di un ambientalista, in realtà è una forma di disobbedienza civile che dimostra non solo l'attenzione alla crisi climatica ma riafferma anche il valore della dignità e dell’autonomia personale, apre una crepa nel modo (prevalente) di concepire il lavoro. Da qui lo spunto a rileggere Marx sul lavoro utile e lavoro astratto

Non c’è ancora abbastanza consapevolezza della relazione tra velocità degli spostamenti e riscaldamento globale. Le migliaia di aerei e di jet privati che solcano i cieli non fanno che aggravare, giorno dopo giorno, la malattia del clima. È con questa convinzione che Gianluca Grimalda, economista presso l’Institute for the Global Economy di Kiel in Germania, eco-attivista, si è rifiutato di tornare in aereo dalle isole della Papua Nuova Guinea, dove si trovava per studiare gli effetti del cambiamento climatico. Per lui tornare in volo sarebbe stato certamente più confortevole, ma avrebbe contribuito ad aggiungere altre 3,5 tonnellate di CO2 nell’atmosfera. Ha dunque intrapreso il viaggio verso la Germania con navi mercantili, traghetti, treni, autobus, evitando l’aereo, come aveva fatto già all’andata; una lunga traversata, dal Pacifico all’Europa, di 30 mila chilometri, o forse più, da percorrere per mare e per terra. E rischia pure il licenziamento per avere disatteso alla perentoria richiesta del direttore del suo istituto di rientrare immediatamente in sede (l’11 ottobre è stato licenziato ndr). Sui media, la notizia è stata derubricata come una curiosità, il comportamento eccentrico e stravagante di un ambientalista.

La vicenda ci parla invece della preoccupante sottovalutazione dei governi nei riguardi del problema ambientale ed evidenzia un grave deficit politico che, in verità, investe anche le questioni più rilevanti del nostro tempo: le guerre, la crisi energetica, il dramma dei migranti, le crescenti diseguaglianze. Si deve a questo deficit e ad élites sempre più chiuse a difesa dei loro patrimoni e privilegi, la ricomparsa di nuove forme di nazionalismo e di fascismo, di razzismo, di apartheid, di sopraffazione di interi popoli. D’altronde, anche la diffusione di forme di lotta, individuali e collettive, radicali ma scollegate tra di loro, trova la sua ragione nel disorientamento e nella debolezza di una sinistra che ha perso le sue coordinate culturali e politiche e pare navigare a vista.

La disobbedienza civile di Gianluca Grimalda mostra un disagio crescente verso la pretesa di aziende ed enti privati di organizzare, fin nei minimi dettagli, il lavoro e la vita delle persone. Il rispetto dell’orario di lavoro, la puntualità, il prodotto realizzato nel minor tempo possibile, costituiscono modalità di comportamento dettate dal mito dell’efficienza, del business, della crescita, costi quel che costi. Grimalda rompe con regole codificate, considerate “naturali” per il buon funzionamento aziendale, riafferma il valore della dignità e dell’autonomia personale, apre una crepa nel modo (prevalente) di concepire il lavoro, rappresenta un esempio per i tanti/e, sempre più numerosi/e, che manifestano malessere e in-sofferenza rispetto a rapporti di lavoro diventati gabbie soffocanti. Da che cosa nasce questo dis-adattamento al lavoro? Marx si sofferma molto sulla distinzione tra «lavoro utile», concreto, che produce valori d’uso (cose, oggetti), e «lavoro astratto», che produce valori di scambio (merci). Con la rivoluzione industriale il primo soccombe davanti al secondo. L’astrazione del lavoro è data dalla separazione (estraneazione) del lavoratore dal prodotto del suo lavoro e dall’insieme del processo produttivo.

«L’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone a esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che la produce». (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 2004, p. 67). Quello che interessa all’imprenditore non è l’utilità dei prodotti ma il suo valore, che è determinato dai tempi di lavorazione e dalla quantità di oggetti scambiati sul mercato. È il tempo di lavoro a dare la misura e il valore delle cose, non le particolari abilità o specifiche competenze dei lavoratori. La quantità prevale sulla qualità. «Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale […]Vi è un continuo movimento di accrescimento nelle forze produttive, di distruzione nei rapporti sociali, di formazione nelle idee; di immutabile non vi è che l’astrazione del movimento: mors immortalis». (Marx, Manoscritti, cit., 2004, p.94).

Non è stato sempre così. Nelle società precapitalistiche, in cui dominava il lavoro utile, il tempo seguiva il ritmo delle stagioni e della vita. La durata del lavoro era determinata dai tempi del raccolto, della semina, del pascolo degli animali, della manifattura artigianale. La giornata si allungava o si accorciava in base alle esigenze e alle specificità del lavoro da svolgere. Non c’era la netta separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita tipica dei nostri giorni. La vita dell’uomo si svolgeva in uno scambio continuo con la natura. «Il lavoro [nelle società precapitalistiche] è un processo che avviene tra l’uomo e la natura, in cui l’uomo media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico tra sé e la natura». (Marx, Il Capitale, Newton Compton, 1997, p. 146).

Con la transizione dal feudalesimo al capitalismo si verifica una «grande frattura» nel rapporto tra l’uomo e il suo ambiente naturale e avviene una profonda riorganizzazione di tutta l’attività umana. Per Marx il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto, è il punto d’avvio del capitalismo. «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale […] o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore». (Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1973, p. 31). Il lavoro astratto prende il sopravvento sul lavoro utile e modella le relazioni sociali, la visione del mondo, i modi di vivere e di pensare. «Gli uomini scompaiono davanti al lavoro, il bilanciere della pendola è divenuto la misura esatta dell’attività lavorativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive. Per cui non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più l’incarnazione del tempo. Non vi è più questione di qualità. La quantità sola decide di tutto: ora contro ora, giornata contro giornata». (Marx, Manoscritti, cit., p. 48).

Il dominio del capitale si afferma nei rapporti di lavoro, nell’economia e nella società attraverso un processo continuo di espropriazione e ogni cosa viene trasformata in merce: il lavoro, il mondo fisico e animale, il corpo e la mente degli uomini.
Nella società del lavoro astratto comanda l’orologio. Fin dalla loro scoperta, gli orologi non si limitano a misurare il tempo che passa, ma diventano strumenti di controllo dei lavoratori, prima nelle campagne e poi nella fabbrica. Il padrone non tollera perdite di tempo, il tic-tac dell’orologio avverte tutti che «il tempo è denaro». Con l’orologio il tempo diventa un continuum omogeneo e uniforme. Le lancette dell’orologio girano e rigirano su sé stesse: oggi è uguale a ieri, domani è uguale a ieri e a oggi. È uno schema che contempla la continuità ma non il cambiamento. La scoperta dell’orologio, non a caso, coincide con l’affermazione del lavoro astratto. È il lavoro astratto che produce il tempo astratto. L’uno è inseparabile dall’altro e il tempo dell’orologio è lì a ricordarci che «è così e basta». Il tempo orario, scrive John Holloway, «è il tempo di un mondo che non controlliamo, un mondo che non risponde alle nostre passioni […]È un tempo fuori di noi, un tempo che corre avanti su binari prefissati […] è un tempo reale ma non è il nostro tempo, non è la nostra storia». (J. Holloway, Crack Capitalism, 2012, Derive Approdi, p.146). Ora con gli algoritmi – con l’uso della potenza di calcolo e dell’intelligenza artificiale (AI) nella gestione aziendale – il controllo sull’attività lavorativa e sulla vita delle persone compie un ulteriore salto di qualità, è destinato a diventare ancora più stringente e alienante.

Gianluca Grimalda non è un moderno Don Chisciotte, non vive fuori dalla realtà, è piuttosto un lavoratore che rifiuta la logica del comando e del calcolo economico, semplicemente non accetta regole e consuetudini consolidate. Il suo gesto di protesta ci segnala un fatto importante, un conflitto che si riaccende nel lavoro: i tempi e i modi del lavoro astratto sono diversi da quelli del lavoro utile. Riemerge il «carattere duplice del lavoro» (Marx) come chiave di un cambiamento possibile. Oggi le forme di sfruttamento si sono moltiplicate, anche in ragione del fatto che i confini del lavoro astratto si sono allargati ben oltre la classe operaia e tendono a includere la totalità delle relazioni sociali. La dominazione capitalista non attiene solo alla proprietà e al controllo dei mezzi di produzione e del sistema finanziario, ma coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita e condiziona, in termini distruttivi, i rapporti con la natura e con l’ambiente.

Il lavoro utile, poco considerato, subalterno, ridotto ai margini, può riacquistare, in questo contesto, un nuovo significato come riappropriazione del fattore umano e sociale nei rapporti di lavoro. Può riacquistare terreno estendendo la conflittualità dentro il lavoro ovvero contro tutto ciò che, nei rapporti di lavoro, ostacola la valorizzazione dell’intelligenza, della creatività, delle competenze, delle inclinazioni e dei desideri individuali. La riscossa del lavoro utile contro il lavoro astratto è d’altronde coerente con una visione della rivoluzione da costruire passo dopo passo, attraverso l’azione individuale e collettiva, nelle piazze e nelle istituzioni. La storia ci insegna che non basta la «presa del potere» per realizzare il socialismo. Il cambiamento reale richiede un processo, paziente e difficile, di «liberazione del lavoro dalle sue catene». Inoltre, i problemi che abbiamo di fronte, nella loro complessità e drammaticità, non possono ridursi all’ora X, ma richiedono riforme in grado di abbattere i muri e gli steccati alzati a difesa del sistema. La rivoluzione, in questo senso, si presenta come un lungo viaggio, con i suoi tempi, le sue tappe, le soste e le accelerazioni. Il contrario di un’attesa messianica, sapendo che il capitalismo è un «movimento storico», non è eterno e immutabile come vorrebbero farci credere i suoi apologeti.

Nella foto: Gianluca Grimalda durante il suo viaggio di ritorno dalle isole Papua Nuova Guinea (dal profilo twitter di G.Grimalda)