«Vorrei che le persone ascoltando le canzoni evocassero il ricordo di qualcosa di impercettibile ma reale», dice il cantautore romano a proposito del suo disco "Guerra dei mondi”. Otto brani sul filo di un rock chitarristico e testi che fluiscono «nella maniera più libera possibile»

Lorenzo Disegni è un giovane cantautore romano che ha percorso tutta la consueta gavetta di esibizioni nei locali e di lungo lavoro in studio di registrazione, sfociata poi in un’importante partecipazione a Musicultura Festival nel 2021 e nel 2022. Dopo la pubblicazione di due singoli, raggiunge ora l’obiettivo più importante con l’uscita del suo primo album Guerra dei mondi che contiene otto canzoni.
Lorenzo è anche un grande appassionato di cinema, ma ascoltando il disco è facile indovinare che la “Guerra dei mondi” cui si riferisce il titolo ha poco a vedere con l’omonimo film di fantascienza e molto a che fare con le storie complicate e spesso conflittuali che nascono all’interno dell’ineffabile rapporto uomo – donna.
Sulla base di un rock energetico ma mai aggressivo, i testi di Lorenzo, spesso surreali e a volte spiazzanti, colpiscono l’ascoltatore in una sequenza di segnali subliminali che piuttosto che “raccontare una storia” puntano a creare immagini, quasi dei frammenti di sogno, che vanno poi a ricomporre il senso compiuto della canzone.
Abbiamo incontrato Lorenzo per uno scambio di idee sul suo lavoro.

Spesso hai dichiarato che, pur accettando la definizione di cantautore, le tue composizioni non sono riconducibili alle consuete categorie musicali.

Questo è un problema che riguarda essenzialmente il modo in cui si è costretti a presentarsi sul mercato, che impone la necessità di voler applicare per forza un’etichetta sul prodotto. Ritengo che quello che faccio, pur ricadendo naturalmente nell’ambito Pop-Rock, si debba contraddistinguere, spero, per una sua originalità soprattutto per una ricerca lirica a livello dei testi. D’altro canto, questo è l’unico modo che conosco per fare musica e soprattutto è l’unico modo che mi faccia stare bene e andare avanti.

I tuoi testi qualcuno li ha definiti “psichedelici” oppure “ermetici”, a volte quasi inafferrabili.

Io non mi metto mai a tavolino pensando a quello che racconterò in una canzone, non è proprio nelle mie corde, cerco invece di far fluire i testi nella maniera più libera possibile, in una sorta di “libere associazioni” cercando di creare immagini che possano evocare un ricordo, suscitare un’emozione.

Compaiono all’improvviso citazioni di nomi o di luoghi che evocano immediatamente un ricordo o una “memoria” – Piazza San Cosimato, Cinema America Occupato a Roma, L’Avana, Picasso o Schiele – che risuonano nel “sentire” dell’ascoltatore senza che questi che debba averli realmente vissuti o sfiorati.

A ben guardare si tratta di un procedimento non del tutto inedito, che rimanda a maestri assoluti di scrittura creativa come Bob Dylan o Francesco De Gregori, i cui testi ai loro esordi apparvero visionari, ermetici e intraducibili. A metà degli anni Sessanta lo stesso Dylan si faceva beffe dei giornalisti che lo intervistavano con la pretesa di scavare il significato più profondo e recondito dei suoi testi che lui stesso si divertiva ad inventare con lo spirito del giocoliere. Vorrei che le persone ascoltando le canzoni evocassero il ricordo di qualcosa di impercettibile ma reale, un ricordo indefinito ma molto forte, qualcosa che non sanno quando è accaduto o con chi, ma che sanno che è successo.

Il rapporto uomo-donna è al centro di tutte le canzoni, ma spesso compare nei testi una sottile ironia, o anche autoironia, anche quando tocca argomenti scottanti, come abbandoni o separazioni, porgendo col sorriso sulle labbra anche i versi più crudi, come «affondare il coltello nella sua pigrizia».

In verità non riesco mai a piangermi addosso, e, forse, ad accettare il dolore fino in fondo, e quindi in un certo senso sono costretto ad esorcizzarlo in maniera autoironica. Mi sembra tutto sommato un modo più carino di rapportarmi al mondo esterno, forse una forma di richiesta di aiuto formulata in maniera volutamente leggera.

Dal punto di vista musicale tutto il disco è pervaso da un suono di chitarre compatto e brillante, che coniuga sapientemente antico e moderno, con qualche riferimento al suono “guitar oriented” degli anni Novanta.

Il riferimento ad un suono rock decisamente chitarristico è evidente come pure i riferimenti agli anni Novanta al suono di gruppi come i Rem, i Blur o gli Oasis, fino ad arrivare anche al Grunge. Ma a ben guardare questa musica rimanda ulteriormente anche alla psichedelia, alla scena “indie” e al rock “classico” degli anni Sessanta e Settanta. Nella creazione del nostro “sound” è stato decisivo l’apporto di Giacomo Turani, chitarrista e co-produttore del disco, assieme a Igor Pardini, due carissimi amici che assieme a me hanno curato tutta la produzione. Inoltre, come spesso amo ricordare, sin dalla più tenera età io sono cresciuto a “pane e Beatles”, quindi innegabilmente almeno un paio di brani del disco – “Ancora” e “Faremo Finta (Spesso)” – rimandano ad atmosfere tipicamente psichedeliche dei “fab four”.

Parlaci anche dei musicisti che ti hanno affiancato nella produzione del disco e nelle esibizioni dal vivo.

Oltre a Giacomo Turani – chitarrista elettrico e colonna portante di tutto il processo creativo – ci sono Agnese Rizzari alle tastiere e synth, anche lei responsabile della co-produzione, Gianluca Frapposi (Fraz) al basso e Davide Fabrizio alla batteria, tutti accomunati da fraterna amicizia e forte spirito di squadra.

Quali sono le difficoltà che incontra un giovane cantautore come te per arrivare a farsi conoscere nella complessità della scena musicale di oggi?

Si tratta di un percorso estremamente difficile in questo periodo storico ed in questo “nuovo mondo” in cui il mare magnum delle nuove tecnologie e dei social, piuttosto che un’opportunità di rischia di diventare un oceano in cui è più facile perdersi che restare a galla. Inoltre anche il supporto e l’affiancamento da parte degli “addetti ai lavori” – o presunti tali – finisce per fornirti quei pochi strumenti pubblicitari e divulgativi che alla fin fine puoi mettere in campo anche da solo. Quindi l’unica soluzione è stringere i denti, credere profondamente in quello che fai e andare avanti a testa bassa, sfruttando tutte le opportunità possibili e fidando sul fatto che alla fine qualcuno ti riconosca e possa investire seriamente sul tuo progetto.

E nel frattempo?

Abbiamo messo in campo tutte le sinergie possibili creando una sorta di rete insieme a due o tre gruppi indipendenti ed “amici”, con i quali condividere gli obbiettivi e rafforzare il passaparola tra il pubblico di ciascuna band. In questo senso resta importantissimo il momento dei concerti ed il riscontro positivo ottenuto suonando dal vivo: la gente che ci ascolta pare divertirsi e quindi vogliamo divertirci anche noi!