La casa editrice Einaudi ha recentemente tradotto e messo a disposizione del lettore italiano il corposo lavoro dello storico Quinn Slobodian Il capitalismo della frammentazione. Gli integralisti del mercato ed il sogno di un mondo senza democrazia, che costituisce una gemmazione degli studi svolti precedentemente e pubblicati nel 2021 per Meltemi col titolo di Globalist. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, dove per imperi si fa riferimento al passaggio di primo Novecento che vede – assieme alla Prima guerra mondiale – il dissolversi di quello Austroungarico, Ottomano e Zarista, l’affermazione definitiva degli Stati Nazione e la nascita del neoliberalismo. Inserito nella collana Passaggi, avviata nel 2009 per suggerire letture che colgano le tendenze di fondo della contemporaneità, ha l’ambizione di indicare la direzione del capitalismo contemporaneo (individuata in maniera netta nella prima di coperta e non ripresa nel frontespizio vero e proprio) nella categoria della frammentazione, in un mondo non costituito da pochi Stati-nazione ma dove sorgerebbero tanti piccoli territori senza tassazione progressiva, senza welfare, senza regole e soprattutto senza democrazia.
In realtà il lavoro è molto più complesso, financo contraddittorio in alcuni tratti. Solo per restare alla linea di lettura proposta al lettore italiano dall’editore, i piccoli territori ai quali si fa riferimento sono di duplice natura: la distruzione spesso per via militare di realtà statuali molto più ampie e la “perforazione” degli Stati attraverso le zone (nella sua forma primaria ed elementare definita come un’enclave ricavata all’interno di una Nazione ed esentata dalle normali forme di regolamentazione) siano esse porti franchi, zone economiche speciali, città stato, paradisi fiscali, bantustan veri e propri o sopravvivenze medioevali nella stessa Londra capitale della finanza (dopo la scelta di dismettere la vocazione manifatturiera per assestare un colpo mortale ed una delle culle del socialismo del lavoro per mano della Thatcher).
Se per l’Urss siamo di fronte ad una implosione e sconfitta degli Stati nati dalla rivoluzione d’ottobre, la Yugoslavia, l’Irak, l’Afghanistan e la Libia, solo per citarne alcuni, sono stati smembrati con la forza delle armi dalla potenza mondiale in declino degli Usa e, a geometria variabile, dalle varie ex potenze coloniali europee. Ed è proprio la lettura globale dei processi geopolitici che non è sempre convincente, soprattutto nella valutazione dell’esperienza cinese e del suo ruolo di area periferica (e sottoposta all’umiliazione coloniale con perdita di pezzi significativi di territorio) capace di porsi come attore decisivo in un mondo già multipolare e in grado di riscattare dalla fame – e ridurre l’indice di diseguaglianza mondiale – grazie al miglioramento delle condizioni materiali di centinaia di milioni di cittadini cinesi.
Le stesse zone si addensano, fa notare l’autore, in Asia, America Latina ed Africa, mentre Europa e Nordamerica insieme ne contano meno del 10%: appare evidente da questo semplice dato quantitativo di come esse siano uno strumento utilizzato dalle aree forti del sistema mondo per mantenere e perpetuare una asimmetria di potere rispetto alle periferie. Le zone piacciono soprattutto all’Occidente ed ai suoi propagandisti: la perforazione ed indebolimento dello Stato delle periferie appare dunque come una mossa preventiva rispetto alla possibile utilizzazione dello strumento statuale per tentare di invertire traiettorie di marginalità, che è quello che a noi appare il segno più significativo dell’esperienza cinese e delle scelte del partito comunista che la governa. In Occidente le zone servono a portare all’estinzione i resti dello stato sociale grazie alla minaccia ed il ricatto della fuga di capitali (ove non si creassero le condizioni “attrattive” necessarie) ed a sperimentare la separazione tra capitalismo e democrazia rappresentativa di stampo liberale.
Molti fili compongono dunque il robusto ed avvincente lavoro, dalla trasformazione dell’ex impero coloniale britannico alle varie realtà politico-istituzionali prese come riferimento dai vari esponenti di quello che a noi sembra una delle parti meglio riuscite del libro, la ricostruzione nel tempo e nello spazio dei vari settori nei quali si è articolato e si articola il movimento neoliberista, con un particolare ed utilissimo riferimento alla realtà post fine del mondo diviso in due blocchi ed all’irradiazione ed articolazione che promana dagli Usa piuttosto che dalla vecchia Europa. Intendiamoci, il terreno era pur sempre fertilizzato e sostenuto dalle riunioni e convegni internazionali della Mont Pelerin Society, fondata dall’economista anglo-austriaco Friedrich August von Hayk nel 1947 come difesa contro la minaccia del socialismo e del welfare state.
Libertariani ed anarcocapitalisti – quel filone che privatizza ed affida al mercato le stesse funzioni del monopolio della forza che caratterizzano anche gli Stati minimi dei neoliberisti – vengono definiti e seguiti nelle loro scorribande teorico-culturali e politico-economiche, facendoci scoprire una realtà niente affatto marginale, capace di egemonizzare persino parte della sinistra antistatalista e globalista (basti il riferimento alle parole d’ordine contro vaccini e green pass durante la pandemia, ben altra cosa rispetto alla giusta critica rispetto allo strapotere delle multinazionali del farmaco) e definendo i tratti della destra conservatrice più coerentemente mercatista e autoritaria.
Nomi di singoli e di intere generazioni, come quella di Milton Friedman, economista, esponente principale della scuola di Chicago, fondatore del pensiero monetarista e Premio Nobel per l’economia nel 1976 e dei suo degni e radicalizzati figlio e nipote e di fondazioni, dall’Heritage Foundation al Cato Institute. Da Peter Andreas Thiel, fondatore di PayPal ed una delle persone più ricche del mondo a Alvin Robushka, sostenitore fin dagli anni Ottanta della flat tax al 15%, che assieme all’inserimento nelle costituzioni della clausale del pareggio di bilancio (che serve a prevenire la possibilità di una spesa dalle caratteristiche ed imporre rigide limitazioni agli investimenti statali) andavano a costituire con l’esaltazione della libertà economica senza la libertà politica il credo dei moderni apostoli del capitale vittorioso.
Un autoritarismo liberale le cui virtù sarebbero state messe in ombra dall’enfasi della democrazia nella definizione del Mondo Libero durante la Guerra fredda.
Tutti profeti del capitalismo senza democrazia, dove la proprietà privata ed il mercato attraverso gli agenti del capitale possano realizzare l’esercizio del potere nudo e crudo.
Quell’eccesso di democrazia segnalato dal Rapporto della commissione trilaterale degli anni Settanta che rappresenta il manifesto politico della controffensiva del capitalismo a livello globale, quando l’avanzata delle forze legate al movimento operaio in Occidente ed i processi di decolonizzazione avevano fatto sperare (o temere) il superamento del capitalismo stesso.
Quella democrazia sociale e sostanziale, che si realizzava nello stato sociale e nella democrazia dei partiti di massa, è stato efficacemente sterilizzato e la democrazia liberale depurata dagli elementi pluriclasse è stata utilizzata nella critica alle realtà dei paesi oltrecortina e della stessa Unione Sovietica. Adesso, sconfitta sul campo la possibile (o comunque vissuta come tale) alternativa il capitalismo può dismettere e non far più riferimento alle libere elezioni come sinonimo di civiltà e progresso. Il libro è anche un lungo viaggi nei – e dei – reami nei quali il capitalismo trionfante possa vivere nella sua purezza creatrice di una nuova umanità, non più rammollita dalle lusinghe dei divani e della non competitività ferina permessa dai sistemi di protezione sociale: ed ecco squadernarsi davanti a noi Hong Kong, le Dockland di Londra, la città-stato di Singapore, il Sudafrica degli ultimi anni dell’apartheid, il Corno d’Africa e gli Emirati fino alle frontiere rappresentate dalla realtà virtuale e dalla colonizzazione dello spazio e dei pianeti.
Un libro da leggere, alla luce anche della recentissima vittoria del candidato anarcocapitalista Milei alle elezioni presidenziali argentine e come strumento di comprensione delle esperienze niente affatto sconfitte rappresentate dalla presidenza di Bolsonaro in Brasile ed a quella di Trump negli Usa.
Un libro da meditare, in quando ci ricorda di come il disaccoppiamento tra capitalismo e democrazia sia basato e funzionale al tentativo di annullare la capacità di resistenza e trasformazione progressiva rappresentata dal lavoro vivo, dai lavoratori e lavoratrici in carne ed ossa. Sono proprio loro a costituire il nemico della variegata galassia analizzata: lavoratori che non sono cittadini nei paesi nei quali lavorano, ai quali viene sottratto il diritto di voto assieme alla possibilità di associarsi e costituirsi in liberi sindacati.
Una realtà che vediamo potentemente operare anche nel nostro paese, con il conflitto sociale associato ad una patologia e le organizzazioni sindacali fatte oggetto di attacco e dileggio.
L’autore: Maurizio Brotini, Ufficio di programma Cgil Toscana e Assemblea nazionale Cgil