L’orrore… i numeri 105 le donne uccise dall’inizio dell’anno, ma un nome Giulia, Giulia Cecchettin diventa simbolo, bandiera, coagula movimenti, 2000 studenti di ingegneria che a Padova si raccolgono per “fare rumore”, gli studenti che, anziché rispettare il minuto di silenzio in memoria chiesto dal ministro, urlano e si fanno sentire, un nome, una vicenda che genera prese di posizione numerose e diverse, che agita, purtroppo anche il fango sui social e non solo.
Forse anche perché Giulia ha una sorella, Elena, che non accetta la sua morte come inevitabile, che dato l’accaduto si ribella all’esistente. E allora occorre lasciar posto alle domande che da più parti vengono poste, ascoltare le ragazze, i ragazzi le loro paure, il loro coraggio.
Occorre proporre un pensiero che può conoscere il perché di un pensiero violento e quindi malato che può portare ad uccidere, ma che non individua una caratteristica della specie, vale a dire non è insito nella natura umana l’assassinio, se accade, qualcosa si è ammalato. Occorre puntare il riflettore su alcuni pensieri/concetti dominanti che possono rappresentare un vulnus per rapporti “brutti”, prevaricanti, possessivi… violenti perché in questi rapporti sparisce l’umano, la donna diventa cosa, oggetto da possedere che non si può perdere. Occorre affermare che chi uccide, e a volte si uccide, è un malato, perché ha perso un’immagine di sé stesso che gli permetterebbe di essere libero nel rapporto con gli altri, di comprendere e amare il diverso da sé. Sono persone, uomini, che si rendono specchi che riflettono l’immagine altrui, per cui se l’altra va via, si allontana dallo sguardo, sparisce anche l’immagine di sé, come a Filippo che diceva a Giulia che “l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con Lei o i momenti in cui lei gli scrive”.
Occorre chiarire che il femminicidio è la tappa finale di un percorso di violenza, dominato da miasmi invisibili, da quella anaffettività, dinamica patologica, causata dalla perdita di affetti, cioè di quel movimento spontaneo verso l’altro da sé che ci rende curiosi, interessati, affascinati da un altro essere umano, tanto più se diverso. L’anaffettività invece è contraddistinta da un vuoto interiore, è la perdita della fantasia, della vitalità, è la perdita di quell’immagine di sé stessi che permette l’accesso al mondo delle sensazioni, delle immagini senza parole, dell’invisibile oltre il comportamento visibile, che diventa negazione e annullamento dell’altro che dilaga appunto in comportamenti omicidi: l’altro deve smettere di esistere.
È malattia della cultura dicono, allora occorre mettere a fuoco alcuni punti.
L’identità della donna. Possiamo andare a cercare nella storia e molti lo hanno già fatto, la costruzione di un’idea per cui la donna sarebbe meno dell’uomo ma alla luce dell’oggi ciò in
cosa si traduce? Nella difficoltà a dire no, a fare dei rifiuti perché si intuisce, si sa che qualcosa non va “vorrei sparire dalla sua vita ma non so come farlo perché mi sento in colpa, ho paura di fargli troppo male” diceva Giulia alle amiche, dire No è assimilato spesso all’essere cattive. Si teme di sbagliare, di mancare. Ed anche quando il rifiuto esce, viene espresso, può venire ignorato, equivocato, deriso, pensiamo alla battaglia culturale sul consenso, sui limiti, su ciò che può essere inteso come consenso nell’ambito di uno stupro o di una violenza in generale.
Non si riesce a dire no perché si ha timore di essere sbagliate, si teme di essere abbandonate, il rifiuto invece è parola gentile e forte che può cambiare le menti.
Occorre rifiutare l’idea, sia dalle donne che dagli uomini, che se il ragazzo è geloso, possessivo, se ti controlla è perché ci tiene a te “il mio malessere” lo chiamano questo tipo di “amore” e nasconde l’idea che se l’uomo non fa così è meno uomo o comunque non è abbastanza coinvolto nel rapporto. E questa narrazione impedisce anche agli uomini la possibilità di sentirsi vulnerabili di chiedere aiuto, di riconoscere il proprio stare male.
C’è a Torino uno spazio speciale, il cerchio degli uomini, che Paola Sangiovanni ci ha raccontato con un interessante documentario; un gruppo in cui gli uomini maltrattanti si confrontano e cercano forse una cura, ripartono da un poter dire di sé e riconoscere le proprie dimensioni malate.” Era lì in piedi mi guardava, io le ho sferrato un calcio, mi sentivo inferiore rispetto a lei, era una donna decisa, intelligente molto bella… mi dominava e io non la sopportavo, non la reggevo, era più forte lei…io venivo fuori con la rabbia, con la voce, con la forza” ci racconta uno dei protagonisti. Svela cioè un rapporto in cui non esiste l’accettazione della diversità, la donna “decisa, intelligente, bella” realizzata non deve esistere.
Si avverte l’esigenza, non sempre consapevole, di ridare un’identità alla donna, che non si fermi ai diritti civili, all’identità sociale, professionale, alla parità salariale o alle opportunità di carriera, ma che si basi su una ritrovata sensibilità, sulla possibilità di fidarsi delle proprie intuizioni che si muovono in quel mondo nascosto, inconscio, che poi va compreso. Proporre e sviluppare un’identità che non si appiattisca solo sul comportamento e sul piano della coscienza ma che, fusa al sentire del corpo, comprenda quel patrimonio di movimenti, sensazioni ed immagini che è il non cosciente. Difficile accorgersi della patologia, malattia invisibile, che non si esprime necessariamente
nel comportamento, nel pensiero della coscienza ed è difficile fidarsi di ciò che si sente se l’altro è il tuo ragazzo, o l’amico del cuore, a cui vuoi bene ” Ti ci intossichi ma non capisci, non vedi” come mi ha detto una ragazza. Gli strumenti che si danno alle ragazze, alle donne sono ahimè la paura e una falsa idea di amore.
Ma l’amore è, e cito Massimo Fagioli, in un’intervista su Left del 2016 “ rapporto con l’identità dell’altro, rapporto che è rispetto, fascino, interesse, se c’è amore si fa di tutto per sviluppare e favorire la realizzazione dell’identità altrui”. (contenuta anche nel libro di Left, con la violenza sulle donne). Un amore appassionato che non dipende e non chiede soddisfazione, ci dice nella stessa intervista. Per questo amore serve identità e libertà sia per le donne che per gli uomini, poiché è nell’ identità sana che risiede la libertà di essere e permettere all’altro di essere.
Le azioni politiche che vengono proposte riguardano la repressione, o meglio una
necessaria applicazione delle leggi a tutela della donna, e iniziative, peraltro da più parti
osteggiate, di educazione sessuale nelle scuole, previste d’altronde dall’art. 14 della
convenzione di Istanbul. Educazione e repressione sono strumenti funzionali ad una società della performance, rimangono alla superficie, al comportamento visibile, forse necessari ma non risolutivi, contengono l’immagine di un essere umano da modellare e controllare.
Occorre quindi segnalare i limiti di un intervento esclusivamente educativo.
Il focus di un cambiamento culturale, di un cambiamento sul pensiero e sull’immagine dei
rapporti umani, potremmo pensare debba implementare dei valori condivisi e promuovere fin dalle prime fasi dello sviluppo una ricerca e comprensione degli affetti. Ambiti raggiungibili solo parzialmente e superficialmente dall’educazione. È necessario dunque continuare a cercare, a studiare, a proporre.
Ipotizzare una formazione che permetta e favorisca il modularsi di un pensiero personale che si dia la possibilità di costruire un futuro diverso, quel futuro che ognuno assapora o dovrebbe assaporare nell’amore dell’adolescenza
Mariapia Albrizio è psicologa clinica e psicoterapeuta
Immagine in apertura, dalla pagina Facebook di Coalizione civica Reggio Emilia