Da un piccolo capolavoro come La vegetariana di Han Kang nasce il piccolo gioiello teatrale. Dal 29 novembre alla Triennale di Milano

La forza e, al contempo, la complessità del teatro di Daria Deflorian sta nella capacità di porre in primo piano il rapporto tra arte e vita, tra attore e personaggio, e nella conseguente condivisione delle suggestioni e delle scoperte di cui si nutre costantemente il percorso creativo. Stare dentro le cose e raccontarle dall’interno attraverso un prolungamento dello sguardo necessario per raccontare di sé, di quell’invisibile verso cui tendere, a partire dalla ricerca profonda che l’artista persegue tenacemente anche tra le parole e le immagini evocate da qualcun altro, per condurre la propria personalissima indagine. Nel 2005, in Cinque pezzi facili ovvero cinque riflessioni sul corpo del lavoro – contenuto all’interno del volume curato da Paolo Ruffini, Ipercorpo. Spaesamenti nella creazione contemporanea – Deflorian scrive: «I pensieri che diventeranno una forma mi arrivano dalle pagine, dai pensieri di qualcun altro, di qualcun’altra, pagine che come uno specchio magico diventano un pozzo nel quale sprofondo… Ho detto un pozzo nel quale sprofondo, ma la sensazione è anche opposta: sono pensieri che diventano interruttori per vedere il mondo».
Nascono così, per citare soltanto qualche esempio, la performance Sonnenlichtstadt (nata nel 1992 all’interno di un progetto del Teatro Potlach e ispirata a una poesia di Ingeborg Bachmann), Memoria di ragazza. Una lettura e qualche canzone del 2017 (dal romanzo omonimo di Annie Ernaux) e, tra gli altri spettacoli realizzati insieme ad Antonio Tagliarini, Rewind. Omaggio a Café Müller di Pina Bausch (2008), Quando non so cosa fare cosa faccio? (2015), Scavi e Quasi niente (2018) liberamente ispirati, rispettivamente, ai film Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli e a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni.

Dopo una tappa a Lugano, dal 29 novembre al 3 dicembre torna in scena alla Triennale di Milano  Elogio della vita a rovescio / Tre storie di Daria Deflorian – con la collaborazione alla drammaturgia di Andrea Pizzalis – una prima produzione intorno a La vegetariana (Adelphi, 2007), romanzo con il quale Han Kang vinse, nel 2016, il Man Booker International Prize.
Abbiamo avuto il piacere di vederlo al Teatro Basilica a Roma in prima assoluta nell’ambito della 18esima edizione di Short Theatre. Elogio della vita a rovescio è un’indagine intensa e penetrante che, accogliendo le innumerevoli suggestioni dell’opera della scrittrice coreana, rievoca immagini e affetti, privatissimi, per restituirli alle memorie altrui. Implicando un’attenzione, un’immediatezza all’ascolto che costringe lo spettatore, fin dal suo ingresso in sala, a interrogare anche il tempo dell’attesa – una sorta di vibrante sospensione – quale primo elemento drammaturgico di cui tener conto.
È innanzitutto la questione del vedere ad affiorare tra le pieghe del testo, in un gioco di rimandi tra realtà e finzione che coinvolge, intimamente, racconto, dispositivo scenico e spettatore. Attraverso una dialettica con il pubblico – dalla quale l’artista non può prescindere – che rimanda ad una autentica condivisione del proprio rapporto col testo, che si prefigura come una ricerca su quanto, in quel rapporto, può ancora accadere.
Suddiviso in tre capitoli, che la performer Giulia Scotti preannuncia ogni qual volta si appresta ad addentrarsi in un testo specifico di Han Kang, lo spettacolo si concentra sul rapporto tra due sorelle, immergendo fin da subito lo spettatore in uno spazio, un altrove non del tutto riconoscibile ma che, a poco a poco, assume le sembianze del già vissuto. Come se si potessero riconoscere, nelle storie evocate e raccontate, profonde risonanze con il proprio autentico sentire. Come se quelle parole, quei gesti, parlassero dei «nostri sentimenti con più precisione di quanta ne possiamo mettere in campo noi».
Sin dalla Prima storia – La vegetariana – emerge con forza una coraggiosa dichiarazione di poetica che rimanda all’intero percorso artistico di Daria Deflorian, dove la ricerca sul linguaggio e sul movimento – soprattutto interno – confluiscono in una più profonda riflessione sulla possibilità di dire in un modo nuovo, mediante un processo di scavo continuo. «Io sono da un’altra parte, io scrivo»: la nostra protagonista, al di qua della linea, non è né dentro né fuori, consapevole che è in quel ‘dentro’ che si sta celebrando la festa ma che, allo stesso tempo, è in quell’incontro, in quell’equilibrio delicatissimo – tra il dentro e il fuori appunto -, che si compie la creazione artistica.
Ed è nella precisione della messa a fuoco di una riga, di un gesto – come quello di sollevare una serranda – finanche di un pensiero, che è possibile rintracciare quell’interesse profondo per l’essere umano, per la sua storia, quale elemento precipuo del processo creativo dell’artista. Racconta Deflorian in un’intervista: «L’amore per gli altri, per qualcuno che non rientra in una mitologia, qualcuno che magari incroci nell’autobus e se ne sta andando al lavoro, per l’essere umano che non fa grandi apparizioni sul palcoscenico della vita ma ha una sua luce che devi saper riconoscere, è un sentimento struggente che fonda tutti i nostri lavori», come leggiamo nell’appassionante e puntuale volume di Rossella Menna, Qualcosa di sé. Daria Deflorian e il suo teatro (luca sossella editore, 2023).
La Seconda e Terza storia traggono ispirazione dalle successive opere di Han Kang, The White Book (2016) e Atti umani (2014). The White Book è un libro sulle cose bianche, colore rievocato in scena da una sostanza polverosa, candida e purissima, che l’attrice sparpaglia a terra con gesti precisi e rigorosi, raccogliendone parte con le mani, per poi lanciarla in aria, e infine posandovi sopra il proprio corpo disteso. Alludendo, probabilmente, alla possibilità di poter ri-scrivere continuamente la propria storia, saggiandone gli incontri e i percorsi, ridisegnandone le traiettorie. È in Atti umani che il racconto più intimo e privato si fonde con la Storia, più precisamente con il massacro di Gwangju, in Corea del Sud, del maggio 1980, quando i militari aprirono il fuoco su un corteo di protesta, in maggioranza studenti.
La scena, racchiusa all’interno di una geometria dell’immagine, è scardinata di volta in volta dai movimenti – netti e al contempo leggeri – di Giulia Scotti e dai microfoni che pendono dall’alto, dalla forza evocativa delle stesse parole, accuratamente scelte. Un intreccio di voci e memorie che rivendicano la poeticità dell’immagine e la ricerca del senso ad essa sotteso.

«Era come una finestra che si allargava, si allargava, e improvvisamente era tutto finestra e sentivi una estrema libertà di osservare degli aspetti che ti attiravano di un testo, che non erano per forza nella trama o nel personaggio. Io andavo sempre a cercare me stessa tra le righe, e quindi ero delusa quando non mi ci potevo ritrovare perché magari non c’era una consonanza anagrafica o biografica, ma l’analisi del testo serve proprio a questo: non è che devi ricondurre quel testo a te, sei tu che devi allargare i confini del tuo io attraverso quel testo», dice Daria Deflorian, in Qualcosa di sé

Daria Deflorian