C'è necessità di una risposta unitaria di massa di fronte allo sfruttamento delle fasce più deboli della popolazione, in particolare le donne, operato dal sistema capitalistico. Che divora tutto, come emerge dal nuovo saggio di Nancy Fraser

I movimenti di massa di questi ultimi mesi coinvolgono la sfera della «produzione» e quella della «riproduzione»: lavoratori che scioperano contro i bassi salari e contro i tagli alla sanità pubblica; donne, lavoratrici e non, che non vogliono più essere «angeli del focolare» in base a un’ancestrale divisione dei ruoli. E le piazze si riempiono anche dei giovani di Fridays for Future, contro le guerre, e altro ancora. Si tratta di una novità importante che misura la distanza tra «popolo» e «populismo».

Il problema politico, a questo punto, è il rischio che ogni segmento sociale proceda in ordine sparso, inseguendo il proprio «particulare» invece di convergere su obiettivi condivisi. Entrare nel merito ci aiuta a capire la radice comune dei mali e dei problemi che alimentano tanto disagio e (in)sofferenza.
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non si ferma in fabbrica, secondo una lettura riduttiva ed economicista del pensiero di Marx. Lo scambio ineguale tra lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione si estende alla società, alla natura, ai Paesi ex coloniali, assume la forma della sottomissione femminile, della devastazione ambientale, dell’oppressione di interi popoli, depredati delle loro ricchezze (terre, miniere, fonti energetiche, ecc.). Nell’opera di Marx si trovano numerosi riferimenti al fatto che il capitalismo non sia una mera «economia», bensì un «ordine sociale storicamente determinato», proprio come a suo tempo fu il feudalesimo. Si deve al lavoro di Nancy Fraser (Capitalismo cannibale, Ed. Laterza, 2023, traduzione F. Lopiparo), la dimostrazione che il capitalismo, come aveva intuito già Marx, ha un continuo bisogno di condizioni «esterne» da sfruttare a basso costo per far fronte a squilibri e a crisi sempre più frequenti. (v.  intervista su Left a Nancy Fraser ndr).

Nella società capitalistica, scrive Fraser, «le attività di cura, pur essendo considerate in sé “improduttive”, rendono possibile il lavoro che il sistema chiama “produttivo” […] È solo grazie al lavoro casalingo, all’accudimento e all’istruzione dei figli, alla cura affettiva e a tutta una serie di attività correlate che il capitale può ottenere una forza-lavoro adeguata per qualità e per quantità alle proprie esigenze. In una società capitalista la riproduzione sociale è una precondizione indispensabile della produzione economica». (cit., p.63). Eppure, a dispetto della realtà, gli apologeti dell’ordine costituito fanno di tutto per tenere separati i due piani (della produzione e della riproduzione), nascondono che il lavoro non retribuito o sottopagato delle donne, oltre ad essere determinante per tenere in piedi il sistema nel suo insieme, costituisca la causa prima della posizione subordinata della donna rispetto all’uomo salariato.

La storia del capitalismo, da due secoli a questa parte, è caratterizzata da lotte e movimenti per migliori condizioni salariali e di vita, per la riduzione dell’orario di lavoro, e ancora per il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, per una legislazione a favore di donne e bambini. In particolare, nei «trenta gloriosi» (seguiti alla seconda guerra mondiale) il cosiddetto «compromesso socialdemocratico» è riuscito nell’intento di coniugare le dinamiche di mercato con la protezione sociale, la catena di montaggio (fordista) con il consumismo familiare delle classi lavoratrici. Lo Stato, in questa visione (keynesiana), diventava il garante di un benessere che dall’alto della scala sociale si trasmetteva alle fasce medio-basse.

A un certo punto, però, a partire dai primi anni Ottanta, il meccanismo si inceppa, dai trenta gloriosi siamo transitati ai quaranta ingloriosi. Il pensiero liberista diventa egemone, modellando i rapporti sociali e la vita politica, praticamente in tutto il mondo. Ad una accumulazione di ricchezza privata senza precedenti corrisponde un indebitamento elevato degli Stati. Il vento reaganiano e thatcheriano ha avuto pesanti contraccolpi nel nostro Paese sul salario nominale e sul «salario sociale» (servizi pubblici, diritti del lavoro). Negli anni 80-90, con l’abolizione della scala mobile e l’avvio della politica dei redditi, comincia la stagione dell’austerità e della pax salariale.

Nel corso di pochi decenni siamo passati da un capitalismo aperto alla concorrenza ad un capitalismo chiuso, sempre più protezionista, in cui pochi monopoli e oligopoli dominano il mercato, grazie anche agli aiuti di Stato, alla legislazione pro-impresa, alle agevolazioni fiscali. I ricavi di alcune big company superano i bilanci di molti paesi dell’Ue. Nuovi gruppi industriali si formano e accrescono la loro dimensione attraverso spericolate operazioni di fusioni e acquisizioni (mergers and acquisitions). I problemi di oggi – la questione salariale, la crisi del welfare, l’acuirsi delle diseguaglianze sociali e di genere – sono anche il riflesso dello strapotere dei monopoli e dell’assenza di fatto di un mercato libero e concorrenziale. Non ci poteva essere smentita più clamorosa dei principi fondamentali del credo liberista.

In parallelo a questi processi di «concentrazione economica» assistiamo all’«esternalizzazione» di molte attività non direttamente legate al core business aziendale (servizi di pulizia, vigilanza, call center, help desk, ristorazione, logistica, ecc.). Il risultato è una doppia polarizzazione: nel mondo delle imprese e nel mondo del lavoro. Vi sono aziende che, mediante le innovazioni tecnologiche, i processi di accentramento e i tagli di personale, riescono a realizzare forti economie di scala ed elevati ricavi e altre aziende, viceversa, che realizzano profitti solo attraverso salari di fame e condizioni di lavoro spesso inumane. È nato un terziario – esteso, spezzettato e poco qualificato – che si regge su contratti pirata e precariato. Se a questo dato aggiungiamo quello di un’economia sommersa, in cui lavorano circa tre milioni di persone, senza contratti e senza tutele, il quadro sociale diventa ancora più desolante. Stanno anche in questi meccanismi perversi, che tolgono dignità al lavoro e generano frustrazioni e insicurezza, alcune delle ragioni dell’imbarbarimento delle relazioni umane.

Il cambiamento tecnologico in Italia si è tradotto, insomma, in una spinta del mercato del lavoro verso l’alto (lavori specialistici ben pagati) e verso il basso (lavori di routine mal pagati). A farne le spese sono il ceto medio e le fasce deboli, soprattutto le donne. Nonostante tante battaglie, le donne rimangono per lo più custodi dello spazio domestico, protagoniste della riproduzione sociale e, in virtù del suo ruolo nella scelta dei consumi familiari (cibo, pulizia, oggetti di uso quotidiano, abbigliamento, giochi per bambini, e così via), punto di riferimento del business economico. Appare chiaro insomma che nella fase attuale del capitalismo è il potere di mercato che determina l’ordine sociale, la sua gerarchia interna, chi vince e chi perde. A meno che non vogliamo credere alla favola del capitalismo «verde» o «dal volto umano», la costruzione di un movimento unitario dipende innanzitutto dalla capacità di superare la divaricazione tra lo straordinario avanzamento tecnologico e lo spaventoso arretramento culturale e civile in cui viviamo. I concetti gramsciani di «egemonia» e di «blocco storico» possono tornare ancora utili ed essere il filo conduttore della battaglia anticapitalista e per un «ordine nuovo ».

Nella foto: Manifestazione dei Fridays for future, Parma, 27 settembre 2019 (wikipedia)