La Convenzione sul patrimonio mondiale ha compiuto 50 anni. Ma il modello su cui si è basata finora mostra molte criticità: i siti vengono individuati soprattutto in un’ottica eurocentrica e la loro gestione è declinata in chiave economicista, finalizzata allo sfruttamento turistico
“Lo spirito di Napoli” è il titolo del documento finale della conferenza Unesco che si è svolta nella città partenopea. Obiettivo degli incontri era la celebrazione dei 50 anni della Convenzione sul patrimonio culturale del 1972 su cui è incardinata la World heritage list (Whl) che raccoglie i siti dotati di outstanding universal value e in quanto tali meritevoli di protezione e, assieme, dei 20 anni della Convenzione sul patrimonio culturale immateriale che risale al 2003. La World heritage list (che annovera ora 1.199 siti culturali e naturali, rappresenta il programma Unesco di maggiore successo, quello attraverso il quale è stata istituzionalizzata, a livello mondiale, una continuità ideologica fondata sulla supremazia culturale dell’Occidente ed espressa attraverso un canone - l’insieme dei siti - che di fatto ha consolidato gerarchie politiche e culturali esistenti. Durante le sessioni napoletane di fine novembre 2023 i 195 rappresentanti dei Paesi aderenti alla Convenzione del 1972, hanno discusso sui problemi che il patrimonio si trova a fronteggiare nel XXI secolo, dalla crisi climatica all’overtourism. L’appello finale, intriso degli onnipresenti richiami alla necessità di un approccio al patrimonio mirato al benessere delle comunità, all’inclusione sociale e ad una sostenibilità ambientale e turistica, rivela puntualmente, pur nella retorica di circostanza, le gravi criticità che pesano sulla World heritage list e la sua gestione.
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login