Il 21 gennaio di cento anni fa moriva il rivoluzionario russo. In un nuovo libro Guido Carpi ne rilegge la figura e il pensiero, mettendone in luce i tratti originali, fuori dalla vulgata che lo ha liquidato come "anticipatore di Stalin"

Il crollo dell’Unione Sovietica, se per un verso ha permesso l’accesso agli archivi ed al materiale censurato dell’esperienza nata dalla Rivoluzione d’Ottobre, dall’altra ha visto un crollo vertiginoso nelle capacità e profondità di lettura e interpretazione di una storia grande anche nella tragedia, si senta o meno di appartenere od essere appartenuti ad essa.
Una collezione di figurine dai tratti caratteriali che vanno dal caricaturale al demoniaco, estranei antropologicamente non solo alla tradizione occidentale per i tratti “asiatici” che li caratterizzerebbero ma allo stesso corso della storia come autoaffermazione della libertà basata sulla proprietà: questo quel che ci consegna la retorica dei vincitori e degli apologeti della fine della Storia.
La realtà storica e storiografica è ovviamente molto più viva e complessa, le vicende degli uomini e delle donne nella e della Rivoluzione molto più vive e grandiose, la costruzione di uno Stato socialista sulle macerie dell’Impero zarista un compito prometeico, ed il moto di liberazione scaturito dall’Ottobre non si è affatto arrestato se smettiamo di guardare al mondo con occhi eurocentrici. Il leninismo ebbe infatti una portata dirompente nel modo nuovo di considerare il sistema-mondo e la questione coloniale, nonostante l’insufficiente attenzione mostrata a questo tema dal marxismo “occidentale”, come già segnalato da Domenico Losurdo e ben colto precedentemente dallo stesso Antonio Gramsci.
È dunque un atto di coraggio ed onestà intellettuale – non scisso da una passione politica mai sopita – quello che Guido Carpi, professore di Letteratura russa presso l’Orientale di Napoli, sta producendo da tempo. Ci riferiamo ai suoi contributi su “Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin” apparso nel primo volume della Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani per Carocci del 2015, la monografia Russia 1917. Un anno rivoluzionario sempre per Carocci nel 2017, i due volumi sul Lenin prerivoluzionario usciti nel 2020 e 2021 per Stilo Editrice fino a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) uscito ora per Carocci. Se per un verso sistematizza quanto già affrontato in precedenza – e i lunghi anni di studio e di riflessione sul tema riescono a tradurre passaggi ed interpretazioni di grande complessità in una prosa densa ma accessibile ed intrigante non solo per gli addetti ai lavori o ai cultori della materia -, dall’altro affronta per la prima volta in un avvincente corpo a corpo i pochi anni – ma che segnano passaggi d’epoca – che vanno dalla Rivoluzione vittoriosa alla morte di Lenin. Mesi nei quali nel corpo e nella mente del capo bolscevico precipitano tutti gli immani sforzi di edificare uno Stato e di dare risposte alla questione delle Nazionalità dell’ex-impero zarista, senza ricadere nello sciovinismo grande-russo e mantenendo quella «carica utopistica senza confini» che per Carpi rappresenta la cifra del «rivoluzionario assoluto».
Epiteto e sintesi del proprio essere nel mondo che Lenin (22 aprile 1870 – 21 gennaio 1924) aveva forse presagito per se stesso nel mentre così definiva gli amati Marx e Cernysevskiij, figura di spicco del populismo russo e autore del romanzo Che fare? (composto durante l’imprigionamento a San Pietroburgo nel 1862-63 e sottoposto a censura fino al 1905).
E proprio la mancanza di una teoria dello Stato viene individuata come il limite maggiore, seppur storicamente comprensibile, del marxismo dell’epoca e dello stesso leninismo che se per un verso aveva fatto compiere un salto epocale nella lettura globale dei processi storici attraverso la categoria dell’imperialismo per l’altro rimaneva confinato nella definizione dello Stato come puro esercizio della forza. Una acquisizione “teorica” derivante dalla natura reale e concreta dello Stato zarista: convincimento fortificato dalle vicende del padre e del fratello, il primo morto di crepacuore dopo esser stato anticipatamente pensionato a dimostrazione di quanto fossero impossibili le pur minime forme di riformismo seppur moderato, dall’altra la brutale morte per impiccagione dell’amato fratello come segno inscalfibile dell’esercizio brutale del potere zarista e della vigliaccheria della società civile “democratica”.
Ne esce un ritratto di quegli anni – e soprattutto dei protagonisti – assai più mosso di quanto la tradizione avesse tramandato, realizzato da Carpi attraverso il vaglio del molteplice materiale coevo in lingua originale. Il Lenin che per troppo tempo abbiamo conosciuto e tramandato, apprezzato o aspramente criticato, era spesso e per molti tratti l’anticipazione di Stalin e della rilettura delle vicende del gruppo bolscevico e rivoluzionario codificata dallo stalinismo, piuttosto che il Lenin “autentico” (questo vale per la versione “bacchettona” della sua vita giovanile per quanto riguarda sessualità e costumi, per la messa in sordina delle frequentazioni con la canaglia ancora da politicizzare nella stagione delle rapine di autofinanziamento e soprattutto per i rapporti molto più mossi e fluidi con gran parte della galassia menscevica e con lo stesso Trockij).
Fatta la rivoluzione, i compiti fondamentali che Lenin aveva di fronte a se sono sostanzialmente due: mantenere il potere nella dissoluzione dello Stato zarista e nella guerra interna con le Armate bianche e iniziare quella marcia verso il socialismo mentre le previste rivoluzioni in Occidente tardano a manifestarsi o vengono sconfitte. Al Lenin di Stato e rivoluzione soccorrono le letture hegeliane del periodo bellico, valorizzate da Carpi così come lo studio giovanile su Lo sviluppo del capitalismo in Russia (mentre viene decisamente stroncato Materialismo ed empiriocriticismo). Se la pace di Brest-Litovsk e la NEP sono dei colpi di genio che salvano la Rivoluzione lasciando aperte le prospettive dell’edificazione del Socialismo – e la fondazione dell’Internazionale comunista costituisce il tentativo fecondo di tradurre il bolscevismo nelle altre lingue europee e mondiali facendo sintesi tra l’eccezionalismo dell’Ottobre ed il suo universalismo -, molto più complesso venir fuori dalla questione concretissima di come riconfigurare tutto lo spazio ex-zarista e come leggere le trasformazioni sociali e di cultura politica del nuovo gruppo dirigente del Partito (che era l’unico soggetto realmente in grado di garantire la tenuta delle istituende repubbliche socialiste e della loro unione). Su questo sono di grandissimo interesse i verbali delle sette riunioni della Conferenza sulla questione nazionale indetta nel giugno del 1923 dal Comitato centrale del partito, tenuti segreti fino al collasso dell’Urss, e messi a disposizione del lettore italiano.
Nell’ultimo Lenin è sempre più presente la consapevolezza della complessità dei problemi concreti che si pongono al rivoluzionario che diventa uomo di Stato. Si veda l’intreccio tra socialismo e democrazia che ruotava intorno ai rapporti tra soviet, Partito e Stato.
Il tentativo di porre i soviet alla base della nuova struttura statale non sopravvive alla cacciata degli esèry di sinistra (esponenti del Partito Socialista Rivoluzionario, espressione soprattutto del mondo agrario e contadino) e al consolidarsi di un regime strettamente monopartitico; l’embrione del nuovo potere statale nei territori è da subito formato dai comitati locali del Partito comunista, partito che vede i membri del comitato centrale impegnati nelle più disparate attività di governo subendo esso stesso un processo di verticalizzazione ed accentramento.
Si veda soprattutto la riflessione sulla burocrazia di partito e sul ruolo dell’Apparato.
È questa una chiave di lettura suggerita da Carpi che viene ripresa dai lavori di Moeshe Lewin, non ossessionato dalla personalità di Stalin e attento alla storia sociale di quella peculiare formazione economica e sociale che fu l’Urss come ricordato dalla professoressa Maria Grazia Meriggi, che a noi pare ancora assolutamente centrata (ci riferiamo sia a L’ultima battaglia di Lenin uscita in Italia nel 1968 sia e soprattutto alla Storia sociale dello stalinismo uscita nel 1988 per Einaudi). La trasformazione ed ampliamento dei quadri dirigenti bolscevichi – e quindi del nuovo Stato – operata dalla guerra sia esterna che civile era stato colto in maniera incipiente dall’antico sodale Bogdanov, che aveva sottolineato il clima intimidatorio all’interno del partito e il carattere soldatesco della nuova cultura politica da caserma che si andava manifestando , «caratterizzata da una comprensione di ogni compito come questione di forza d’assalto», a differenza della logica di fabbrica permeata di intelligenza collettiva volta all’organizzazione: «Distruggiamo la borghesia, ed ecco il socialismo. Prendiamo il potere, ed ecco che possiamo tutto». Lenin mostra fastidio nei confronti del ritualismo burocratico e nelle avvisaglie del culto della personalità e si lancia in intemerate contro i neppisti e gli inetti quadri comunisti, spie delle modalità concrete con le quali si sta costruendo un apparato sempre più vischioso, autoritario, servile e sempre più schiacciato sulle logiche interne, perdendo quella carica emancipativa che aveva sempre caratterizzato il precedente gruppo bolscevico fin nelle più dure battaglie interne e nelle ardite mutazioni di linea.È questo il limite maggiore dell’ultimo Lenin per Guido Carpi: «Nel fenomeno nuovo e modernissimo dell’accentramento burocratico come forma di organizzazione delle masse egli vede solo un’eredità zarista pronta a riemergere secondo la profezia di Le Bon (si fa riferimento alla citazione di Gustave le Bon tratta da La psicologia del socialismo riportata nelle memorie dell’ex comandante supremo dell’Armata bianca e sottolineato da Lenin)».
Un limite analitico che non ha tuttavia impedito al capo bolscevico, pur segnato dal duplice ictus, di combattere la sua ultima battaglia contro Stalin alleandosi con Trockij – direttamente o nell’impossibilità attraverso gli uffici della Krupskaja (e su questo si leggono interessanti, inediti o non valorizzati momenti).
Lasciando al lettore di seguire direttamente la ricostruzione di questi passaggi, molto più rilevanti della discussione sulle modificazioni ed autenticità del cosiddetto testamento di Lenin, ci piace chiudere su due episodi che a nostro avviso segnano uno stacco rilevante e suggeriscono una chiave di lettura di molta parte dell’esperienza rivoluzionaria e delle trasformazioni dei gruppi dirigenti.
Dopo il primo ictus del 25 maggio 1922 Lenin passa la convalescenza a Gorki. Venuto a sapere che l’antico compagno di lotta Julij Martov (era stato assieme a Lenin nell’esilio di Monaco di Baviera, redattore dell’Iskra, capo menscevico in Russia ed in esilio, fondatore di riviste e giornali in lingua ebraica e yiddish) è malato e in miseria in un sanatorio, chiede a Stalin d’inviargli un contributo economico, ricevendone un diniego accompagnato da siffatte parole: «Figuriamoci se mi metto a spendere soldi per un nemico della causa operaia!». E proprio ancora di Martov cercherà di avere notizie negli ultimi durissimi mesi di vita, nelle poche pause di lucidità: «chiede di Martov, esule in Germania e malato da tempo, e Krupskaja finge di non aver sentito, ma letta su un quotidiano dell’emigrazione che l’amico e compagno di gioventù è morto, l’uomo scuote la testa, guardando la moglie con riprovazione».
Buona lettura e buona discussione.

 

Gli appuntamenti: Oggi alle 16 Guido Carpi presenta il suo libro a Fahrenheit su RaiRadiotre li 26 gennaio alle 18 Carpi ne discute nella casa del popolo di Calci (Pi) con Maurizio Brotini (Cgil Toscana). Il 3 febbraio a Roma, al Laboratorio politico Granma