Mentre la Corte internazionale di giustizia non archivia le accuse contro il governo di Tel Aviv, Medici senza frontiere continua a raccontare una realtà drammatica e “straziante” come ha detto il capomissione Msf a Gaza

«Israele deve prendere misure per prevenire e punire coloro che incitano al genocidio» dei palestinesi: lo hanno sancito oggi, 26 gennaio, i giudici della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja. L’Aja ha quindi respinto la richiesta di Israele di archiviazione del caso aperto dalle accuse del Sudafrica sulle violazioni della Convenzione sul genocidio (v. articolo su Left) anche se non ha imposto il cessate il fuoco. La situazione degli ospedali e dell’assistenza sanitaria è gravissima, come testimonia questa seconda drammatica corrispondenza di Medici senza frontiere (la prima qui).

Continuano ad arrivare notizie dalla Striscia, grazie a Maurizio Debanne, dell’Ufficio stampa di Medici senza frontiere (da Gerusalemme):
Malak aveva 5 anni, viveva in un rifugio messo su dal team di Medici Senza Frontiere nel sud della striscia di Gaza, assieme ad altre cento persone del luogo che operano aiutando i lavoratori di Msf e le loro famiglie. Il rifugio era stato ricavato da una sala per matrimoni, situato in un’area non sottoposta a evacuazione, un luogo in cui, fino a qualche mese fa, si cantava e si festeggiava.
Una granata ha sfondato il muro dell’edificio, attraversato la sala, ed è uscita dal lato opposto. In ospedale si è provato di tutto per salvare la vita a Malak, le prime notizie erano già difficili da accettare: amputazione delle gambe. In realtà l’intervento chirurgico non è bastato a salvarle la vita. La rabbia e l’impotenza ci ha letteralmente sopraffatto. Suo padre lavora con noi da tanti anni. E come se non bastasse, questa guerra ha tolto la vita anche a chi ancora non la conosceva: Maha, una nostra paziente veniva dalla parte nord della Striscia: sfollata e incinta ha cercato un ospedale quando ha sentito che stava cominciando il travaglio, ma tutti i pochi ospedali funzionanti erano pieni. Aveva già avuto un parto cesareo, ed era preoccupata, ma non avendo altra scelta era tornata nella sua tenda. Suo figlio ha respirato il mondo solo per un attimo, in un campo dissestato, tra macerie e violenza indicibile. Oggi Maha riceve le cure post parto dal nostro team.
Pascale, la collega che coordina le attività in ospedale ci ha detto che Maha ha bisogno di esprimere il suo profondo dolore a tutti noi. Ha bisogno di gridare, di far conoscere l’ingiustizia che ha vissuto: senza questa guerra insensata non avrebbe perso il suo bambino. E noi con questa guerra abbiamo perso tutti.

18 gennaio

Gerusalemme è tutto un sali scendi di colline e dal punto più alto, nelle giornate di sole, si vede Ramallah. Ogni giorno per raggiungere l’ufficio dalla zone in cui risiedono gli alloggi approntati da Medici senza frontiere si possono fare due strade: una, più semplice, è prendere la strada principale dove passa il tram che va a sud verso la città vecchia e Gerusalemme ovest e verso nord raggiunge Pisgat Ze’ev, un insediamento israeliano.

Una strada piena di colori, piccoli negozi di frutta,come le fragole di Gerico, rosso fiamma, e di verdure lucenti. Poi c’è un’altra strada, che passa per il vecchio villaggio di Shu’afat, dove gli alberi di olivo incorniciano le case di pietra di Gerusalemme. Se si prende questa strada, si passa di fronte ad una scuola elementare e quel chiasso infonde un senso di tranquillità, sembra quasi una vita normale.
Per andare e tornare da casa a ufficio, ci vogliono trenta minuti. A Gaza, una donna che ha partorito naturalmente, dopo trenta minuti deve lasciare il suo letto d’ospedale, per fare posto alle nuove partorienti. Qualche volta,in momenti di calma, possono trattenersi perfino due ore. Se si tratta di parto cesareo, sono previste due ore,nei giorni più caotici, e comunque le donne non possono trattenersi più di sei ore. Questo succede perché a Gaza solo 13 dei 36 ospedali sono ancora parzialmente funzionanti. Ogni giorno, ci racconta il dottor Maurizio Debanne, di Msf, camminando per quelle strade luminose, non può fare a meno di considerare quanto è relativo il valore del tempo. Trenta minuti per raggiungere il lavoro e tornare a casa, trenta minuti per mettere al mondo un figlio e alzarsi dal letto per far posto ad un’altra nascita.

21 gennaio
Nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Nasser il dottor Lèo Cans, il capomissione a Gaza per Msf ha trovato ottanta feriti dall’attacco aereo che qualche giorno fa, ha ucciso otto persone. Un attacco avvenuto a 150 metri dall’ospedale. Praticamente lo spazio che normalmente si estende tra la porta d’ingresso di un istituto di cura e la barriera per l’accesso, o il viale, o un posteggio antistante. Tra i feriti un bambino di nove anni. Vomitava sangue. “Penso che sopravviverà” dice Leo Cans, “ma questi attacchi sono indiscriminati, non c’è la minima traccia di un senso umano”. Un altro chirurgo racconta di bombardamenti pesanti e del panico tra i pazienti e quanti avevano cercato rifugio in ospedale. Sono scappati tutti, con le grandi buste di plastica nelle quali hanno frettolosamente raccolto quel poco che avevano a disposizione. E sono i più fortunati, i salvati. È disumano rendere insicuri gli ospedali, luoghi concepiti per salvare vite, “è straziante” aggiunge il medico “prendersi cura di queste persone, straziante essere testimoni di tutto questo”.

23 gennaio

Noor è stanca e pallida. Ha bisogno di assumere ferro e vitamina C. Nell’ospedale a Rafah appena starà meglio dovrà alzarsi e tornare a vivere nella sua tenda di plastica. La sua vera casa è a Jabalya, nel nord di Gaza, ma oggi è ridotta ad un cumulo di macerie. Vicino a lei, la nonna della bambina appena nata insiste perché la bambina si chiami Salam, pace, perché c’è bisogno di pace. Nel letto accanto un’altra bambina appena nata che si chiama Amal (in arabo speranza). Reham, la neomamma ha detto che con quel sorriso che la bambina ha sul volto non può che chiamarsi così. La speranza, ha detto, incoraggia i palestinesi ad andare avanti nonostante questi attacchi indiscriminati, soprattutto la speranza è quel che nessuno vuol perdere.

23 gennaio

Spari sulla folla in attesa di aiuti. Secondo Hamas il bilancio dell’attacco di oggi dell’Idf a Gaza City è di 20 morti e 150 feriti.Molti dei testimoni hanno detto di essere stati presi di mira dagli israeliani,mentre le vittime sono state portate negli ospedali di Al Shifa e Al Ahli . Migliaia di palestinesi sono in fuga verso la costa mediterranea.

Ultimo giorno in Palestina

Maurizio Debanne di Msf scrive:
” ci vorrebbero almeno 5 interventi chirurgici per ciascuno dei feriti che stiamo curando a Gaza. Ma dobbiamo fare i conti con la realtà atroce che non ci permette, dopo la prima operazione, di garantire la continuità delle cure. Le forniture mediche non bastano, i feriti sono troppi, molti del personale infermieristico, sono fuggiti per la paura.E così molti pazienti peggiorano. Come Fadi,un uomo di 40 anni , ferito alla gamba destra e alla spalla sinistra. Vi risparmio la descrizione delle sue sofferenze, basti sapere che abbiamo dovuto alla fine amputare la spalla perché nel nord della Striscia, dove era stato soccorso, l’avevano curato come potevano e non è bastato. Adesso non può neanche usare le stampelle. Ma noi cosa possiamo fare? L’altro giorno abbiamo medicato Miriam, che a soli 6 anni,dopo aver perso genitori e fratelli, ha dovuto subire l’amputazione della gamba destra. La medichiamo a volte senza anestesia perché gli anestetici terminano in fretta e le ferite non aspettano. Non dimenticherò facilmente quelle urla assordanti che , l’ultima volta,si sono concluse con il richiamo più straziante : mamma.
Vicino a lei c’era solo sua zia, e per fortuna che c’era, anche se gravemente ferita. Questa è una guerra senza regole ,che porta solo dolore e morte. Non ci sono giustificazioni possibili. Queste sono le scene che si ripetono l’una dopo l’altra nei diversi ospedali in cui lavoriamo”.

Maurizio Debanne capo missione di Msf :

L’aereo è decollato, questo è il mio ultimo giorno in Palestina.Missione terminata, verrà qualcun altro dopo di me. Lungo il corridoio dell’aereo adesso una bambina sta ballando a piedi nudi sulla musica di un cartone animato, accanto a lei altri due bambini guardano i Puffi: mi torna in mente ogni cosa che ho visto, ogni parola, penso ai bambini che a Gaza stanno vedendo cose che non vorremmo mostrarvi mai… Sono arrivato e vado via con la guerra ancora in corso, non mi ero fatto illusioni, forse una speranza che potesse essere accettata una tregua..…
L’abbraccio più lungo alla partenza me lo ha regalato Marilou, che è una volontaria, madre e nonna. Conosce bene la Palestina, con lo scoppio di questa guerra ha dato subito la sua disponibilità come operatrice umanitaria, adesso sarà qui per un po’ ancora ,a fine febbraio riabbraccerà i nipoti tornando a casa anche lei.
Felipe, un altro volontario è contento perché è arrivato a destinazione un nuovo carico di aiuti, Pauline invece è triste: ogni giorno le davo metà della mia Moka, adesso avrà meno caffè da bere. Enrico, un collega uscito qualche giorno fa da Gaza mi ha detto “siamo una goccia nell’Oceano”. Mi sono sentito stringere il cuore : è vero. Ma, come diceva De Andrè “siamo una goccia di splendore di umanità “ E a nome di tutte le persone della missione Palestina, ringrazio chi ci ascolta e ci sostiene, perché dentro quella goccia ci siete anche voi. E una goccia può avere un sapore più persistente di un bicchiere intero.

Nella foto: frame del video della lettura della decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, 26 gennaio 2024