Restano pochi giorni per vedere la mostra di Anish Kapoor a Firenze. Per chi non l’avesse ancora vista la consigliamo fra le migliori mostre dell’anno, Untrue Unreal, aperta a Palazzo Strozzi a Firenze fino al 4 febbraio 2024. La retrospettiva ripercorre tutte le più importanti tappe della ricerca dell’artista anglo-indiano. E al contempo apre alle prospettive future della sua ricerca che hanno a che fare con una interrogazione radicale sul rapporto fra reale e irreale, fra segno concreto e immaginazione, fra razionalità e pensiero non cosciente, fra femminile e maschile.
La visita della mostra è un cammino esplorativo, un viaggio interiore stimolato dal dialogo con il suo quarantennale lavoro, da cui si esce con un respiro diverso da quello che avevamo quando abbiamo varcato la soglia della mostra. Questa almeno è stata la nostra esperienza. Fin dall’ingresso dove si viene risucchiati in un monolite bianco, l’opera site specific Void Pavillon, costruita al centro del cortile rinascimentale.
Da subito siamo spinti a spogliarci dei nostri abiti razionali per immergerci in uno spazio di accecante nitore sulle cui pareti si aprono ferite nere, che a tutta prima ci appaiono piatte, cicatrizzate, ma che poi ci attraggono verso inaspettate e vive profondità.
Così già prima di cominciare il percorso, Kapoor, deus ex machina della mostra (curata con il direttore della Fondazione Strozzi Arturo Galansino) costringe a liberarsi di ogni residuo di visione piatta e bidimensionale, accendendo la nostra sensibilità, aprendoci all’incertezza. A cui contribuiscono anche gli irti scalini sdrucciolevoli, in pietra serena che ci conducono alla prima sala. Tantissime volte e per innumerevoli altre mostre li avevamo saliti, non sempre agilmente, ma mai avevamo avvertito questo senso di spiccata vertigine. Il genio creativo di Kapoor sta anche in questo, nell’aver ingaggiato un rapporto dialettico con l’elegante architettura classica di Palazzo Strozzi aprendola a visioni inedite, a un flusso creativo di incessante trasformazione. Alchemicamente Kapoor contamina la razionale simmetria delle sale rinascimentali, decostruendone la scatola prospettica, schiudendola a spazi imprevisti di immaginazione, a una quarta dimensione.
Ma si potrebbe dire anche che alcune sue opere storiche, qui esposte e ricreate ad hoc, come Endless Column (colonna infinita, 1992, omaggio a Brancusi) o la serie blu oltremare Angel assumano nuovi significati. «Sono interessato agli effetti che i luoghi hanno sulle opere», ha dichiarato del resto lo stesso Kapoor in passato.
E qui, per esempio, le sue opere in cera intrecciano un dialogo inedito con le opere in cera della tradizione fiorentina, come scrivono Francesca Borgo e altri esperti del Rinascimento nel catalogo Marsilio Arte che accompagna la mostra. Ma è anche interessante esplorare il suo modo di usare i pigmenti alla luce della tradizione rinascimentale fiorentina ricostruita nel catalogo da Rachel Boyd.
Sui media perlopiù Kapoor. Untrue Unreal è stata raccontata come una indagine sul mondo virtuale, – verità e finzione -, e sull’influenza crescente che tutto questo, attraverso il web e l’intelligenza artificiale, ha sulle nostre vite. Una lettura che, a mio avviso, anestetizza il senso più profondo di questa mostra che va ben oltre queste ovvietà di cronaca. Dietro c’è molto di più. C’è il lavoro di una intera vita, quella di Kapoor, che muovendosi liberamente fra Oriente e Occidente, ha cercato di dare rappresentazione a immagini profonde, universali, che ci accomunano tutti in quanto esseri umani.
Oseremmo quasi dire che alcune sue opere come To reflect on intimate part of the red (1981) tentino di andare alla ricerca dell’immagine della nascita come solo colore, prima della comparsa della linea. Il rosso Kapoor è un rosso profondo, vivo, denso, vibrante. È un rosso sfuso come albore interiore, come prima di lui cercava di rappresentare Rothko, ma qui senza quel di evanescente e di vagamente astratto-metafisico che si avverte davanti a certe opere del pur immenso maestro lettone (a cui La Fondazione Vuitton di Parigi dedica una importante retrospettiva fino al 2 aprile 2024).
Il rosso nelle opere di Kapoor è un rosso sangue che assume una densità fisica, carnale, qui e ora, dà rappresentazione a qualcosa che si sente a pelle ma che è difficile da dire: qualcosa che ha che fare con una dimensione di vitalità interiore. Una vitalità che si addensa in opere come Svayambhu (2007) – in sanscrito “nato da sé” – che, ad incipit della mostra, generosamente sgorga dalla cornice di una porta e cola contaminando la realtà con scaglie di cera colorata che cadono a terra man mano che la cubo scultura rossa si muove anche se quasi impercettibilmente lungo binari. È una installazione – scultura che ci parla dello scorrere inesorabile del tempo, della vita umana che ha un inizio e una fine, ma anche di resistenza interiore che si oppone a ogni tentativo di annullamento.
Ci parla del divenire e del rapporto fra visibile e invisibile che lascia traccia ma che non sempre riusciamo a cogliere: «Quando si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno all’oggetto stesso. Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte dell’oggetto è nascosta, invisibile» fa notare l’artista. «Per questo mi sono interessato sempre di più all’oggetto invisibile».
Attraenti, tattili, all’apparenza friabili, quasi da assaporare, appaiono le forme realizzate con pigmenti rossi e gialli della tradizione indiana, quasi fossero memorie vaghe e antiche dei primi anni di vita dell’artista in India, che tuttavia si ribella sempre a una lettura delle “radici indiane” della sua opera che fonde creativamente esperienze diversissime maturate in Asia, a Londra dove ha a lungo vissuto e in giro per il mondo, quanto più di recente a Venezia dove l’artista è approdato da un anno e mezzo.
Con queste primigenie forme gialle, rosse, verdi, che sbriciolano attorno Kapoor – azzardiamo – pare ricreare memorie personali antiche, immagini che ci trasmettono un senso di solare fiducia, certezza, che da qualche parte esista un seno e un altro essere umano capace di amare.
Ma poi tracciando una drammatica linea nera Kapoor dà rappresentazione anche alla dura e necessaria separazione, per definire se stessi, per poter disegnare il proprio volto e riconoscerlo allo specchio che qui si moltiplicano in una serie di sculture specchianti. Il nero con cui Kapoor traccia le proprie linee e crea Non objects multi prospettici è quello assoluto del Vantablack, un materiale altamente innovativo costituito da nanotubi in carbonio capaci di assorbire più del 99,9 per cento della luce visibile, così da rendere invisibili i contorni dell’oggetto. Un materiale ultratecnico che Kapoor usa per dare forma all’immateriale. È un nero vibrante usato per disegnare rettangoli piatti o cerchi che di profilo partoriscono profili imprevisti; un nero che non ha nulla della piattezza razionale. Anzi, è cangiante alla Caravaggio. E, se possibile, ancor più denso e profondo.
Infine eccoci alla luce di sculture specchianti che imprevedibilmente riflettono la nostra immagine capovolta, resa immaginifica con gambe o braccia lunghissime, come quelle che disegnava Cézanne nei suoi ritratti onirici dalle forme allungate. A questa ricerca sull’immagine umana riflessa Kapoor ha dedicato molti anni, realizzando opere iconiche come Cloud Gate (2004) che è diventata l’immagine simbolo di Chicago, esempio altissimo di come una scultura che evoca valori umani universali possa cambiare il contesto urbano in cui è inserito stimolandone una fruizione e una partecipazione collettiva.
Qui si possono vedere Vertigo (2006), Mirror (2018) e Newborn 2019, una sfera liberata della calotta che proietta la nostra immagine in una prospettiva inaspettata. «Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione», ha detto Kapoor presentando la mostra a Firenze. Ed è vero che ogni sua immagine allude a una possibilità di trasformazione profonda che ci riguarda e ci tocca profondamente come esseri umani.