Nessun luogo di Gaza è sicuro, ripetono da mesi operatori umanitari, giornalisti e abitanti della Striscia di Gaza. Dall’inizio dell’invasione israeliana della Striscia la popolazione di Gaza ha lasciato le proprie case per fuggire sempre più a Sud, seguendo gli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano. Ma l’offensiva è proseguita fino a coinvolgere zone che l’esercito israeliano aveva precedentemente indicato come sicure.
È a Rafah, città a ridosso del confine con l’Egitto, che è ormai rifugiata più della metà della popolazione della Striscia. La città, che prima dell’invasione israeliana contava 280mila abitanti, ospita oggi un milione e mezzo di sfollati, circa 16mila persone per chilometro quadrato, molti dei quali già reduci da diversi esodi interni. La maggior parte dei rifugiati vive in tendopoli estremamente affollate, dove le condizioni umanitarie sono disastrose.
Precedentemente definita zona sicura, adesso anche a Rafah si aspetta l’invasione israeliana, e sono già iniziati pesanti bombardamenti: al Jazeera ha riferito che nella notte di domenica 11 febbraio, almeno 67 palestinesi sono stati uccisi da un attacco israeliano che ha portato alla liberazione di due ostaggi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato un’imminente operazione “massiccia” a Rafah per annientare i battaglioni di Hamas operativi nella città, dando istruzione all’esercito di preparare un piano di evacuazione dei civili. Ma la popolazione di Gaza non ha più nessun posto dove rifugiarsi: il resto della Striscia è occupato o distrutto, e la frontiera con l’Egitto resta chiusa.
Non si può permettere la guerra in un gigantesco campo profughi
L’Onu e varie organizzazioni umanitarie si sono espresse con toni allarmati di fronte alla possibilità di un’invasione a Rafah. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha scritto su X che «Le notizie secondo cui l’esercito isrealiano intende dirigersi su Rafah sono allarmanti: un’azione del genere aumenterebbe esponenzialmente quello che è già un incubo umanitario».
«Un’espansione degli scontri a Rafah causerebbe un bagno di sangue e una distruzione da cui le persone non potrebbero scappare; non c’è più nessun posto dove fuggire», ha dichiarato Angelita Caredda, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa del Norwegian Refugee Council. «Non si può permettere una guerra in un gigantesco campo profughi», ha aggiunto su X Jan Egeland, il segretario generale del Nrc.
Nadia Hardman, ricercatrice sui diritti dei rifugiati e dei migranti presso Human Rights Watch, ha dichiarato: «Costringere più di un milione di palestinesi sfollati a Rafah a evacuare di nuovo, senza un posto sicuro dove andare, sarebbe illegale e avrebbe conseguenze catastrofiche. A Gaza non è rimasto nessun posto sicuro dove rifugiarsi».
Le associazioni umanitarie hanno inoltre riportato che l’annuncio dell’imminente attacco israeliano su Gaza ha causato un crescente senso di ansia e panico tra gli sfollati. Amnesty International ha scritto su X che «l’annuncio dell’ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu […] ha diffuso il panico nel governatorato meridionale».
Un incubo umanitario
Nel frattempo la situazione umanitaria a Gaza, da Guterres appunto definita «incubo umanitario», non fa che peggiorare. Già a dicembre, un report del World Food Program evidenziava come la totalità della popolazione di Gaza si trova in una situazione di acuta insicurezza alimentare, con circa un quarto della popolazione a rischio carestia. A Gaza manca anche l’acqua potabile e pulita: secondo l’Unicef a Rafah i bambini palestinesi hanno accesso e 1,5-2 litri di acqua al giorno, quando il minimo per la sopravvivenza è di tre litri: la popolazione, riporta l’agenzia, è quindi costretta a utilizzare acqua proveniente da fonti non sicure, con alti livelli di salinizzazione o contaminata.
La mancanza di cibo e acqua, così come di servizi igienici, docce e fognature, e le condizioni di sovrappopolamento nei campi profughi stanno inoltre causando il diffondersi di malattie e infezioni, soprattutto tra i bambini. In un comunicato, Medici Senza Frontiere ha dichiarato che nelle ultime settimane le équipe MSF a Rafah stanno riscontrando un alto numero di bambini con irritazioni cutanee causate dalla mancanza di acqua pulita per lavarsi, così come disturbi intestinali. Come si legge inoltre dal comunicato, si sta diffondendo anche l’Epatite A, una patologia molto contagiosa che può essere fatale: «nelle scorse settimane, a Rafah abbiamo ricevuto 43 pazienti con sospetta epatite A. Queste condizioni mediche sono tutte legate alla carenza di acqua pulita e sono aggravate dalla mancanza di strutture mediche funzionanti nell’area».
A Gaza sono infatti pochi gli ospedali rimasti operativi: nonostante le strutture sanitarie siano protette dal diritto umanitario internazionale, e non dovrebbero quindi rientrare tra i possibili obiettivi militari, gli ospedali della Striscia sono stati ripetutamente attaccati dall’esercito israeliano che sostiene questi ospedali siano usati dai combattenti di Hamas per scopi militari. A fine dicembre, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a Gaza sarebbero rimasti 13 ospedali parzialmente operativi, 2 minimamente funzionanti e 21 non più in funzione.
In questa situazione catastrofica, risultano fondamentali gli aiuti umanitari e l’operato delle organizzazioni non-governative. Ma questo operato è a rischio: in seguito alle accuse mosse da Israele secondo cui alcuni membri del personale dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, sarebbero stati coinvolti nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, diversi Paesi donatori hanno sospeso i finanziamenti all’Agenzia. Il capo dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha dichiarato che se i finanziamenti resteranno sospesi «probabilmente dovremo cessare le nostre operazioni entro la fine di febbraio». L’UNRWA, come dichiarato in un comunicato di Amnesty International «svolge un ruolo cruciale, rappresentando l’unico supporto vitale attraverso la fornitura di aiuti umanitari essenziali» a Gaza.
L’Egitto rafforza la frontiera
Dopo l’annuncio di Israele dell’attacco imminente a Rafah, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shukri ha dichiarato che l’aumento delle operazioni militari a Rafah avrebbe «ripercussioni pericolose». L’Egitto dall’inizio dell’offensiva israeliana ha dichiarato di non essere disposto ad accogliere un esodo di massa di palestinesi. Fino ad adesso, sono stati quasi solo i gazawi con doppia cittadinanza a essere evacuati in Egitto, oltre a coloro che, pagando fino a 10mila dollari e affidandosi ad intermediari collegati all’Intelligence egiziana, hanno potuto accedere a permessi per lasciare la Striscia (come rilevato da un’inchiesta del giornale egiziano Saheeh Masr con Organized Crime and Corruption Reporting Project).
Negli ultimi giorni l’Egitto ha inoltre rafforzato la sicurezza alla frontiera con Gaza, innalzando la recinzione che separa Gaza dall’Egitto e rinforzandola con filo spinato, e spostando carri armati alla frontiera. L’Egitto ha inoltre dichiarato che uno sfollamento di massa della popolazione di Gaza attraverso la frontiera metterebbe a rischio il trattato di pace tra Israele e Egitto del 1979.
Il resto della Striscia è raso al suolo
Mentre nell’ultima città a sud di Gaza si teme la catastrofe, nel resto della Striscia continuano i combattimenti. A Khan Younis la Mezzaluna Rossa Palestinese denuncia gli attacchi dell’esercito israeliano sui due principali ospedali della città, il complesso medico Nasser e l’ospedale al-Amal.
Dall’inizio dell’aggressione israeliana su Gaza sono oltre 28mila i morti palestinesi accertati, tra cui oltre 10mila bambini, anche se queste cifre si trattano con ogni probabilità di sottostime dal momento che molte vittime sono ancora sotto le macerie e gli ospedali, ormai malfunzionanti, sono sempre meno in grado di tenere il conto dei morti. Già a fine dicembre, la ONG Euro-Mediterranean Human Rights Monitor stimava che i morti nella Striscia avessero già superato quota 30mila.
La maggior parte di Gaza è distrutta: secondo un’indagine condotta da immagini satellitari, tra il 50% e il 62% di tutti gli edifici della Striscia sono danneggiati o distrutti. Questo anche a causa delle demolizioni controllate: secondo il New York Times, da novembre l’esercito israeliano avrebbe effettuato almeno 33 esplosioni controllate distruggendo interi quartieri residenziali, oltre che scuole e moschee.