Non è una questione carceraria è una questione artistica. Potrebbe essere riassunta così la posizione di Armando Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza, dal nome del carcere di Volterra in cui da trent’anni si reca ogni mattina, per costruire e creare con i suoi attori detenuti.
Vita creativa che l’anno scorso, 2023, gli è valso il riconoscimento del Leone d’oro alla carriera alla biennale di Venezia. Non è una questione carceraria. Eppure Armando Punzo ha fatto per il carcere più di tanti che hanno tentato di modificare assetti e regole del mondo penitenziario. Armando Punzo è stato al Piccolo Strehler di Milano con il suo spettacolo Naturae e i suoi artisti detenuti, circa quaranta. Era lì per dare vita a una fantasmagoria di colori, di suoni, di immaginari, per dire che l’uomo Felix è possibile costruirlo oggi, adesso, non in un’utopica terra del domani.
Assistere a Naturae è come assistere a uno splendido sogno fatto di armonia, di gioia, in cui è possibile credere a un’età dell’oro non collocata in un ipotetico passato, ma oggi, nel presente, nella vita di tutti giorni.
Sul palco una colata di sale che rimandava alle Saline. Luogo vicino a Volterra dove negli anni passati è stato rappresentato lo spettacolo Naturae. Lo sfondo è anche esso bianco, quadrettato come carta millimetrata, per una scena abbagliante. A scena aperta Armando Punzo vestito di nero, con i suoi capelli grigi e la sua figura segaligna, si muove con un sorriso. A poco a poco dispone i suoi personaggi sulla scena che si popola progressivamente di felicità, di attori, di sogni, di musica. Elemento essenziale del tutto è proprio la musica originale di Andreino Salvadori che sa essere evocativa, suggestiva, e trasporta come in una trance ipnotica in un sogno felice. Ma non è soltanto la musica a creare questo effetto, a questa felice epifania contribuiscono anche i costumi e il trucco, fatti di semplicità, di bellezza, di sognante freschezza.
A dominare non è più il canone shakespeariano, che da sempre rappresenta le malefatte degli uomini, i suoi umori neri. A governare il tutto è la fiducia nell’uomo e nella sua forza rigeneratrice, è l’homo felix che Armando Punzo si ostina a inseguire, a costruire, a rincorrere. Ma quello di Armando Punzo non è soltanto un sogno, se è stato capace di trasformare il carcere di Volterra insieme ai suoi attori e alle autorità penitenziari, da luogo di esclusiva pena a luogo d’arte, di ricerca. Che presto darà vita al primo teatro stabile in carcere, aperto alla cittadinanza.
L’uomo Felix di cui ci parla Armando Punzo non è domani è oggi.
Che la sua non sia soltanto velleità ma costruzione, lo si evince anche confrontando i dati nazionali forniti da Associazione Antigone, con i dati della specifica realtà di Volterra dove opera Armando Punzo.
Il rapporto dell’associazione Antigone del 2023 fornisce questi dati.
«A fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674. … Secondo i dati pubblicati dal Garante nazionale, sono state 85 le persone ad essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso dell’anno, una ogni quattro giorni. … Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Oms (risalenti al 2019), il tasso di suicidi in Italia era pari a 0,67 casi ogni 10mila persone. Mettendo il dato in rapporto con quello relativo al carcere, vediamo come negli istituti penitenziari i casi di suicidio siano 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà». È altissimo il consumo di psicofarmaci tra la popolazione detenuta, per poter resistere a un tempo dilatato, a un tempo inesistente, a un tempo privo di contenuto come è quello carcerario. Ma a Volterra non ci sono suicidi, il consumo di psicofarmaci è pressoché nullo, e le celle sono singole. Quindi non ci sono fenomeni di sovraffollamento. È un’isola in cui l’affermazione dello Stato non passa attraverso la vendetta effettuata sulla sua popolazione più fragile. Passa attraverso possibilità trasformative ed evolutive, attraverso l’arte e il bello, come impegno quotidiano, come richiamo alla parte più pura di ognuno di noi.
Allo Strehler sono arrivato alle dieci del mattino. Ho passato con gli attori detenuti l’intera giornata. Il backstage è sempre uno dei momenti più poetici del teatro. All’ingresso mi aspettavo controlli severi, di dover lasciare il cellulare, la carta d’identità. Invece era tutto molto fluido, molto libero. Tutto e tutti erano consegnati a un individuale responsabilità. I detenuti circolavano tranquillamente per il teatro preparandosi alla rappresentazione. Armando Punzo insieme ai suoi collaboratori, all’assistente alla regia Alice Toccacieli, al compositore della colonna sonora, riguardava video della sera precedente, correggeva, commentava per cercare la perfezione. Anche la posizione di un vaso diventava oggetto di discussione. Perché da quello dipendevano i movimenti degli attori, i tempi scenici.
Non è una questione carceraria è una questione artistica. E inevitabilmente quest’arte diventa elemento trasformativo. Lo diventa per noi spettatori che assistiamo al bello, lo diventa per chi è protagonista e costruttore del bello, carcere o non carcere che sia.
Io c’ero. Ed essendo allo Strehler fin dalla mattina, a pranzo ho potuto dialogare con Armando Punzo e Alice Toccacieli, assistente alla regia.
Un pranzo artistico. Intervista ad Armando Punzo e Alice Toccacieli
I tuoi attori stanno lavorando molto sul loro percorso teatrale. È come se continuassero a fare dei corsi di specializzazione sul teatro, sull’essere attori.
Questo è quello che speriamo di fare, che tutto questo per alcuni possa diventare anche un lavoro. Perché l’idea del teatro che abbiamo, la costruzione che facciamo, è legata a questo: alla formazione non solo come attore ma anche ai diversi mestieri del teatro.
Per i tuoi attori è cambiato qualcosa dopo che l’anno scorso ti è stato conferito il Leone d’oro alla carriera?
Premesso che secondo me è sbagliato pensare teatro – cresco; teatro – comprendo. I percorsi sono molto più complessi nella vita. Detto questo, loro erano molto contenti, erano molto fieri di tutto questo.
Toccacieli. Abbiamo fatto i Vip alla biennale.
Sono venuti anche i detenuti attori?
Toccacieli. Certo, siamo andati a ritirare il premio, è stato bello.
Punzo. Sono venuti tutti. Abbiamo fatto lo spettacolo. C’era tutta la compagnia. Era un premio a me però è un premio a tutta questa storia.
Toccacieli. Siamo scesi col taxi sul molo privato. È stato un momento divertente per tutti.
Come sta procedendo la creazione del teatro del Teatro Stabile all’interno del carcere di Volterra, La Fortezza?
Punzo. C’è l’architetto Mario Cucinella che adesso ha vinto il bando e lui realizzerà il teatro. Lui è molto attento a un’architettura sostenibile.
Quali tempi vi date?
Ci sono già tutte le autorizzazioni. È già un anno che stiamo lavorando a questa cosa. Adesso loro fanno il progetto esecutivo, lo presentano e poi partono le gare internazionali. Cucinella è un grande, non solo come nome ma anche come persona. C’era ieri sera a vedere lo spettacolo.
Il movimento teatro in carcere a che punto è oggi?
Non direi movimento. Non è un movimento. Ci sono tante esperienze adesso al di là del carcere. Noi facciamo questo progetto: Per aspera ad Astra, che è importante, che mette insieme diverse esperienze dal Nord al Sud al Centro. Però non è un movimento. Sono tutte esperienze singole, di artisti, separate, che hanno la loro estetica. Non è un movimento. Chiaramente ci sono delle persone che si sono interessate a tutto questo grazie anche al nostro lavoro, anche per mia responsabilità.
Sei uno degli iniziatori se non l’iniziatore del teatro in carcere.
Sì, ho iniziato questa cosa. E questa cosa chiaramente ha prodotto anche tante persone che fanno questa attività. Però un movimento, secondo me, no. Non lo definirei così.
Quando ti feci la prima intervista mi dicesti del tentativo di costruzione l’uomo Felix, uomo che può essere costruito già da adesso. Un uomo che non sia portatore della dimensione shakespeariana che esprime tutti i vizi e malanni del mondo. In questi giorni sto rileggendo Lisistrata, l’Edipo re e il teatro greco antico. In quello che fai c’è qualcosa di quel teatro? Quelle radici te le porti dietro o non ti appartengono più?
Noi diciamo, io dico: Shakespeare per dire un grande della letteratura mondiale, che appartiene al genere umano, ma c’è anche tutta la questione della tragedia greca. C’è poco da fare, Shakespeare viene a seguito di quello. Non è che Shakespeare sia un caso isolato. È un’altra sensibilità, ma ha sviluppato comunque quello che l’ha preceduto. Poi c’è la funzione del teatro greco, la catarsi, e cose così. Non è questo. E comunque quello che fai vedere degli esseri umani anche lì sono sempre gli stessi orrori.
Ciò che mi ha stupito è che nulla è cambiato. 2500 anni fa le domande erano le stesse e c’era come oggi l’assenza di risposte.
Il problema è proprio quello. Il problema è da prendere partendo proprio da un altro punto di vista, è da prendere partendo dalla questione della felicità, dell’eudemonia. Veramente. L’uomo è fatto per la felicità. Sembrano delle affermazioni un po’ così, idealistiche, assurde, stupide, banali. Però devi partire da un punto di vista diverso qualunque esso sia, anche se te lo inventi. Perché tutto è inventato, non c’è niente di originale, non c’è niente che viene prima. Nulla è così. Io mi invento che adesso la felicità è la cosa più importante e parto da lì. E tutte le altre cose le metto in crisi, a partire da quel concetto, perché tutto è inventato.
Perché viene presa come buona realtà il punto di vista dei greci, per esempio per trattare l’uomo e raccontarlo? È stato un punto di vista. In quel momento ad alcuni è sembrato un punto di vista importante, sembrava l’unico punto di vista, ma in quel momento. Tranquillamente non accetto di partire da quello se penso ad un essere umano.
Perché dell’uomo devo andare a guardare la merda, le cose negative? Perché devo partire da quello? Se poi faccio un salto per un attimo solo nel carcere, che significherebbe questo? E allora i reati, e il luogo di nascita, e tutta la roba che veramente non se ne può più, il sociale, il Sud, la povertà e tiritì, tirità. Questo è un modo. Ma invece voglio scavalcare questo modo, ed è il lavoro di Naturae. Io voglio partire da lì. Mi posso prendere questa libertà? C’è anche chi dice di no. Che dice “Tu sei un’idealista, uno che si chiude in una torre d’avorio. Sei un utopista, sei un cretino, sei un coglione che crede alle favole. Quando invece la vita non è fatta di favole, è fatta di quella realtà”. Il problema è capire come uno si vuole porre.
È un viaggio in solitaria.
Bisogna dire che nella storia ce ne sono anche altri. Per esempio ero a Bologna a vedere una mostra. Sono entrato e c’era una installazione video musicale con immagini di un’artista portoghese. Questa cosa era bella, era meravigliosa. Non c’era niente di Aristotele, non c’era prima la tragedia, il dramma con lo sciogliere il nodo e poi finalmente arrivare. L’installazione era semplicemente fatta di musiche, parole, immagini ed io mi sono seduto davanti a questa cosa. E ho pensato “Io voglio star qui. Questa cosa mi porta bene, mi fa bene, mi fa compagnia. Spendo bene il mio tempo a stare qui. Mi piace.” E non c’è nessun riferimento alla tragedia, e non era qualcosa che potessi dire “ma che cazzata, che assurdità”. Era un montaggio di immagini, suoni. Evidentemente il punto di vista di questo artista è un po’ come quello che sto dicendo io adesso. Evidentemente lei ha voluto vedere altro, ha scelto. Non ha voluto vedere delle cose. Il che non significa che non le conosca. So anche io cosa siamo noi. Ma mi devo fermare a questo? Quindi evidentemente ha dato spazio ad altri aspetti. Il lavoro che noi facciamo è questo. È provare a dare spazio ad altre cose dentro di noi. Perché se no c’è conflitto, la risoluzione del conflitto, e poi ci fai il teatrino e fai una cosa vecchia, stai di fronte a della gente che ha delle problematiche, tutte giuste lo sappiamo, ce le abbiamo tutti i giorni, e quindi siamo di fronte a un teatro di rappresentazione.
Toccacieli. Però noi siamo anche un discorso di linguaggio che è proprio da mettere a punto.
Punzo. Se cambi punto di vista devi cambiare linguaggio per forza. Perché quello che sto dicendo io non presuppone il linguaggio di un teatro di tradizione, conservatore. Non presuppone la mimesi.
È su tuo suggerimento che ho letto il teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Mi sembra che alcune cose che lui afferma si ritrovino nel tuo teatro.
Artaud era poco teatrante e molto visionario. Non è uno che ha realizzato le cose che ha detto. Però è stato un visionario nella parte proprio teorica. Ha cominciato a immaginare delle cose che non esistevano in quel momento e quindi lui diventa sempre una fonte di ispirazione. Non è che puoi mettere in pratica quello che lui dice. Si potrebbe anche dire che lui era un pazzo e la risolviamo così.
Toccacieli. Lui non ha scritto un metodo, è stato un poeta.
Punzo. Ha sollevato delle questioni e, se poi quelle questioni sono anche tue, tu rispondi. Ma non posso dire che sono artaudiano. Perché artaudiani erano altri. C’è stato anche Peter Brook che stato è stato artaudiano. Cioè ci sono delle cose che ognuno poi frequenta. Comunque sicuramente è una una lettura che ti dà da pensare, ti dà veramente da riflettere, perché sono sfide.
Ne parlavo con Lina Prosa autrice della trilogia di Lampedusa Beach. Lei riteneva imprescindibile la lettura di Antonin Artaud.
Pensa una cosa. Io dico di essere artaudiano perché lo leggo. Poi faccio una cosa completamente diversa, che è mille anni luce lontana da Artaud, dai presupposti di Artaud. Noi artisti diciamo delle cose, ma bisogna vedere cosa si fa realmente. Perché tu dici io sono visionario e poeta. Poi sei conservatore e tradizionale nella pratica. Questo è il rischio di quando uno si auto declama.
Questo accade in tutti gli ambiti.
Ma a volte uno si pensa anche così, non è che lo dicono ed è finta. A volte uno si sente, si racconta a se stesso. Poi va a vedere i lavori.
Due anni fa nel viaggio di ritorno dal carcere di Volterra ero immerso nell’atmosfera magica suscitata dal tuo spettacolo, Naturae, la valle della permanenza. Non era soltanto lo spettacolo a farmi riflettere, c’era anche la dimensione delle relazioni tra voi della compagnia, tra il teatro e il pubblico. È stato difficile riabituarsi a quello che tu hai definito il teatro di rappresentazione. Quello che si respira nel tuo teatro è qualcosa di molto diverso.
Toccacieli. Dico una cosa su questo che secondo me è importante. Nello spettacolo di oggi, che hai visto in carcere, ma oggi secondo me questa cosa la vedi meglio, è proprio anche la composizione dei diversi segni del linguaggio teatrale. Quindi la musica, la parola, i costumi, il colore, il movimento scenico, l’attore, che vengono organizzati, non tanto come diceva Armando prima per raccontarti una storia come si sviluppa, dalle sue radici alle sue conseguenze. Ma è proprio una costruzione completamente analogica, del tutto poetica, che restituisce uno stato d’animo. Il problema non è raccontare: prima succede questo e poi succede quest’altro. Il punto è piuttosto: io vorrei che tu stessi dentro questa sensazione.
Sì, mi ci ritrovo.
Si potrebbe anche dire “Ti voglio in qualche modo accogliere in questa situazione”. Quindi il lavoro si organizza in questo senso. Trova la sua forma intorno a questa struttura. Quindi è molto più simile, se vogliamo parlare in termini letterari, è molto più simile a una poesia che a un romanzo.
Mi ritrovo. Riesco a seguirti proprio partendo dall’esperienza della sensazione che ebbi a Volterra dopo aver visto il vostro spettacolo.
Cioè è la metafora la figura retorica.
Più che una storia sono delle emozioni messe insieme.
Ci sono delle immagini che si rincorrono, che si sovrappongono, che si moltiplicano, e che sono portatori di fiori continuamente. Rifioriscono, rifioriscono, rifioriscono. Non puoi dire prima c’è questo poi questo perché vogliamo arrivare a questo. Non funziona così questo lavoro.
Dire che è una comunicazione da inconscio ad inconscio.
Ieri sera ho incontrato una persona fuori che aveva visto lo spettacolo. Un ragazzo. Non aveva capito che eravamo della compagnia. Quando l’ha capito abbiamo fatto due parole, e lui ha detto “Mi è sembrato il sogno ad occhi aperti di un gentile visionario”. Io ho detto ad Armando “Secondo me devi essere contento che hanno detto così, mi sembra una cosa molto bella”.
Il modo in cui Armando si presenta è la gentilezza e il garbo poi ovviamente diventa un leone quando è sulla scena. Perché vuole le cose in un determinato modo. Quello che ti contraddistingue è l’estremo garbo. Ma è il garbo che ho visto nelle persone che hanno delle grandi passioni, la consapevolezza di quello che stanno facendo.
L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni si muove con una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore).
Dopo Naturae, andato in scena il 18 e 19 febbraio al Piccolo Strehler, il prossimo appuntamento con Armando Punzo è a Ravenna. Il 23 marzo Il figlio della tempesta – Musiche, parole e immagini dalla Fortezza
In apertura, Naturae, Piccolo Strehler, foto di Stefano Vaja