Almirante e Rauti, biografie parallele. Lo storico le ricostruisce nel suo nuovo libro "Fascisti contro la democrazia", tratteggiando il profilo identitario di una comunità politica «che ha come obiettivo la fine della Costituzione nata dalla Resistenza». Davide Conti presenta il suo libro a Roma il 23 febbraio (con Simona Maggiorelli) e il 24 (con Francesco Troccoli)

Nel suo ultimo libro Fascisti contro la democrazia (Einaudi) lo storico Davide Conti, uno dei massimi esperti dello stragismo in Italia, ci offre una ricostruzione minuziosa delle biografie politiche di Giorgio Almirante e Pino Rauti. Il libro di Conti si configura come una lettura del nostro recente passato connessa all’interpretazione del presente.

Davide Conti, come è stato possibile, a meno di due anni dalla Liberazione, che in Italia nascesse un partito annoverante fra le sue fila molti “uomini di Mussolini”, fra i quali anche alcuni iscritti nelle liste dei criminali di guerra stilate dalle Nazione Unite?
La nascita ufficiale del Msi il 26 dicembre 1946 ha rappresentato il segno dei mancati conti dell’Italia con la storia del fascismo. All’alba della Repubblica l’assunzione di responsabilità storico-politica della pesante eredità del regime venne completamente elusa tanto dalle classi dirigenti del Paese (principali responsabili dell’avvento della dittatura) quanto da quell’opinione pubblica che, specialmente nella piccola e media borghesia, aveva consegnato a Mussolini un largo consenso. Questa rimozione si unì al quadro geopolitico della Guerra fredda in chiave anticomunista e alla «mancata Norimberga italiana», ovvero all’impunità garantita ai criminali di guerra fascisti dagli stessi Alleati anglo-americani, creando le condizioni per la nascita di un soggetto politico ostile in radice ai valori fondativi della nostra democrazia costituzionale.

Perché un libro su Almirante e Rauti?
Almirante e Rauti rappresentano due anime centrali del neofascismo. Insieme a Pino Romualdi, artefice della nascita del Msi, e Arturo Michelini, segretario missino dal 1954 al 1969, incarnano il profilo identitario dei «fascisti in democrazia» ovvero di una comunità politica che si pone come obiettivo strategico la fine della Costituzione nata dalla Resistenza. Almirante e Rauti saranno i principali oppositori della linea «moderata» di Michelini. Il primo rimase nel partito aggregando tutte le componenti estremiste «antisistema». Il secondo nel 1956 promosse una scissione da cui nacque il gruppo Ordine Nuovo. È significativo che Rauti rientri nel Msi solo nel novembre 1969, all’indomani dell’elezione di Almirante segretario e a poche settimane dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 realizzata da uomini del gruppo di Ordine Nuovo non reinseritisi nel

L’affermazione della presidente Meloni «il Msi è stato un partito della destra repubblicana» esaurisce la descrizione di quel partito?
La rappresentazione di un Msi che ha partecipato a passaggi della vita repubblicana fa parte della retorica neo e post fascista che cerca di presentare quel soggetto politico come elemento interno alla democrazia. Al contrario, al netto dei tentativi di «inserimento» (secondo la linea adottata da Michelini) i missini presentarono sé stessi e la loro radice ideologica come «alternativa di sistema» cioè come alternativa e disconoscimento della Costituzione repubblicana.

Il libro cita i due convegni di Roma del 1961 e 1965 (fra esponenti della Nato, ufficiali italiani, dirigenti del Msi e membri di formazioni di destra) che ebbero lo scopo di ammodernare la guerra al comunismo con le tattiche di “controinsorgenza”, “stati maggiori allargati” ai civili, “conquista delle menti”. La stagione delle stragi inizia pochi anni dopo e dal 1969 al 1974 in Italia ci furono ben 2.134 attentati…
Il convegno del 1965 segna un punto di svolta per l’estrema destra. I due precedenti consessi Nato di Roma e Parigi del 1960 e 1961 non avevano ancora registrato, pur elaborando nuove e articolate misure anticomuniste di «guerra non ortodossa», la presenza organica dei neofascisti. Nel convegno del 1965 la presenza di Rauti e Giannettini rappresenta l’inclusione, in ambito Nato, dell’estrema destra nella battaglia contro il comunismo. Gli anni delle stragi realizzate dai neofascisti (protetti da alti esponenti delle istituzioni dello Stato) sono la risultante della condizione della democrazia italiana, ovvero un sistema «bloccato» in ragione del vincolo esterno (l’appartenenza dell’Italia all’Alleanza atlantica) che non permette al Pci, uno dei partiti fondatori della Repubblica nonché la principale forza di opposizione che arriverà a rappresentare un italiano su tre, di partecipare e concorrere democraticamente alla guida del Paese.

Nonostante le inchieste, Rauti e Almirante non patirono serie conseguenze giudiziarie, e pur con la ferocia della violenza stragista degli anni 70 in Italia, il golpe non ci fu. Fu il sistema democratico a tenere? Come evitammo il colpo di Stato?
Rauti fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana ma venne poi scarcerato e assolto dalle accuse. Almirante subì in più occasioni la richiesta di autorizzazione a procedere in Parlamento per ricostituzione del partito fascista. Anche in questo caso senza nessun esito. Queste iniziative tuttavia restituiscono, al netto della misura giudiziaria, il clima politico dell’epoca e la percezione identitaria del Msi. Il colpo di Stato in Italia sarebbe stato molto difficile da realizzare. Gianadelio Maletti, capo del reparto Difesa del Sid e condannato per favoreggiamento di Guido Giannettini e del neofascista di Ordine Nuovo Marco Pozzan coinvolti nell’inchiesta per la strage di Piazza Fontana, ha affermato che un tale esito avrebbe significato la guerra civile. Uno scenario che nessun dirigente politico o istituzionale avrebbe potuto accettare. Le stragi mirarono ad una svolta autoritaria di altra natura, ovvero alla proclamazione di uno stato di emergenza per sospendere la Costituzione in nome della sicurezza nazionale. Non si arrivò a quel punto ma senz’altro gli eccidi di civili contribuirono a porre una seria ipoteca sullo sviluppo storico della nostra democrazia.

Nel libro lei ricorda come Almirante fosse ossessionato dal “rischio di comunistizzazione” e citando il golpe greco del 1967 come un modello di salvezza nazionale. Esisteva in Italia il rischio di una rivoluzione comunista?
La visione di una rivoluzione comunista in Italia non esisteva più nella stessa prospettiva del Pci dalla svolta di Salerno del 1944. La questione comunista era determinata dagli equilibri della Guerra fredda che non permettevano, nemmeno per via democratica, l’alternanza al governo del Paese ad un partito legato all’Urss. Questa condizione segnò, a fronte del progressivo allargarsi del peso politico ed elettorale del Pci, il presupposto di sviluppo del Msi in chiave anticomunista. All’inizio degli anni 70 il partito di Almirante raggiunse il suo massimo storico di consensi. Un punto che coincide, insieme, con una delle fasi di più alto sviluppo democratico in termini di diritti e di più alta destabilizzazione eversiva del nostro Paese.

Il libro evidenzia come la politica degli “opposti estremismi” della Dc di quegli anni ponesse comunismo e fascismo su un medesimo piano impedendo così di combattere il neofascismo fino in fondo.
La teoria degli opposti estremismi fu una retorica propagandistica usata dalla Dc e poi, a partire dal 1974, disconosciuta dagli stessi dirigenti democristiani come Paolo Emilio Taviani e Aldo Moro. Dal 1974, anno delle stragi di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus nonché dell’inchiesta sulla trama eversiva della Rosa dei Venti, iniziò un primo intervento volto a disarticolare l’insieme delle condizioni che avevano reso possibile quel tipo di destabilizzazione. Viene rimosso il capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato; viene arrestato il capo del Sid Vito Miceli (poi assolto e prima ancora eletto nelle liste del Msi nel 1976); a fine 1973 viene sciolto Ordine Nuovo; si dispongono, ad opera del ministro della Difesa Giulio Andreotti, una serie di sostituzioni nelle alte cariche delle Forze armate.

È corretto affermare che quel “Fronte articolato anticomunista”, in grado di unificare le forze conservatrici compresi i neofascisti, a cui la destra di Rauti e Almirante ambiva, si è infine realizzato con le elezioni politiche del 25 settembre 2022?
Il contesto storico è profondamente mutato. Almirante e Rauti operarono nel quadro della Guerra fredda cercando di ritagliare uno spazio, sempre subalterno, per il neofascismo in chiave anticomunista. Oggi la presidente del consiglio Meloni, alla guida di una forza postfascista che rivendica l’identità missina e rifiuta di riconoscersi nell’antifascismo come fondamento della nostra democrazia, opera in una società globale ed ha collocato il suo partito dentro le linee di crisi dei sistemi democratici che non riescono a rispondere alle principali questioni del nostro tempo (disuguaglianza sociale e di genere, crisi climatica e del lavoro, diritto alla salute e all’istruzione). Questo ha riproposto il tema retorico dell’alternativa di sistema a destra. Lungi dall’essere una misura concreta e reale, concorre tuttavia ad aggravare lo iato tra popolo e democrazia sostanziale.