Fino al 24 marzo l’Archivio Storico di Cinema Enrico Appetito celebra Gian Maria Volonté, in occasione del trentennale della scomparsa di uno dei più importanti e poliedrici interpreti del cinema italiano.
Ad ospitare la mostra, Gian Maria Volonté 30 – curata da Tiziana Appetito e da Francesco Della Calce e organizzata da Claudia Appetito per EticaArte- gli spazi del Wegil a Roma. Una straordinaria selezione di novanta fotografie, tra le oltre 8.000 presenti in archivio, che ritraggono il set e il fuori set di tre dei film più iconici interpretati dal grande artista, proiettati presso lo Spazio Scena, sempre nello storico rione Trastevere della capitale: Per un pugno di dollari di Sergio Leone, Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, vincitore del Premio Oscar al miglior film straniero nel 1971 e del Gran premio Speciale della Giuria a Cannes.
Un altro importante luogo della mostra è il Csoala Strada, a Garbatella, dove il 21 marzo verrà proiettato il documentario del 1969 di Ugo Gregoretti Apollon – Una fabbrica occupata, con voce narrante di Gian Maria Volonté.
Ad arricchire la mostra incontri e dibattiti ai quali interverranno, tra gli altri, Mimmo Calopresti, Andrea Occhipinti, Daniele Vicari, Mattia Sbragia, Antonello Fassari, Georgia Lorusso.
Abbiamo, per l’occasione, incontrato Tiziana Appetito, figlia del grande fotografo, all’interno degli spazi, affascinanti, dell’Archivio, accolti e accompagnati da un tappeto sonoro di mani sapienti che erano, nel frattempo, impegnate nelle attività del laboratorio. Grazie a Tiziana Appetito il materiale fotografico, presente nell’Archivio, si è arricchito, nel tempo, con le opere di altri due grandi fotografi di scena, Mario Tursi e Gianni Caramanico, superando i tre milioni e mezzo di negativi, positivi e lastre per oltre 700 film. Insieme a Tiziana Appetito, abbiamo dialogato con Francesco Della Calce, critico cinematografico, giornalista e curatore dell’Archivio.
Tiziana, come nasce l’Archivio Storico di Cinema Enrico Appetito? E com’è nata la tua passione che ha alimentato l’importante e prezioso lavoro di tutela di questo straordinario patrimonio artistico?
L’Archivio Appetito nasce in maniera spontanea perché mio padre, non appoggiandosi mai ad altri laboratori, ne ha sempre avuto uno personale nel quale tenere e conservare le sue opere fotografiche.
Fin da piccola andavo al laboratorio, dove mi incuriosiva molto seguire gli stampatori nelle camere oscure. E già all’età di nove, dieci anni, mi divertivo a numerare i negativi. Penso che la passione per questo lavoro sia nata proprio in quegli anni, insieme al desiderio di voler continuare a tutelare ciò che era stato creato e, col tempo, costruito, attraverso il laboratorio.
Che rapporto hai avuto col cinema e con questo sguardo particolare sul cinema che è stato quello di Enrico Appetito?
Raggiungevo mio padre sul set, dove gli portavo anche le stampe appena fatte, i provini. Quello con il cinema è stato un rapporto appassionante, e andare sul set rappresentava per me un momento importante, per comprendere anche meglio la sequenza, la scena, i cui negativi andavo sviluppando e numerando. Mio padre, però, era talmente bravo e meticoloso nel suo lavoro che, anche solo osservando le sue fotografie, avevo la netta sensazione di essere sul set insieme a lui e al direttore della fotografia, o meglio, all’autore della fotografia.
In che modo cambiava lo sguardo di Enrico Appetito da un set a un altro?
Lui entrava subito in empatia con il regista, con il quale costruiva un rapporto di stretta collaborazione, soprattutto quando si trattava di grandi cineasti. Con i registi emergenti, oltre al rapporto di collaborazione, era molto attento anche nel dare loro suggerimenti. Anche se, in verità, sia i grandi registi che gli autori più giovani gli chiedevano sempre dei consigli durante le riprese. Sul set si respirava sempre un grande rispetto per mio padre e per il suo ruolo: spesso, non accorgendosi dei numerosi scatti, che poi venivano mostrati loro successivamente, i registi gli chiedevano se avesse necessità ancora di scattare altre fotografie, e di soffermarsi, ad esempio, sulle scene o su particolari dettagli.
Nel visitare la mostra si ha la sensazione di essere avvolti, quasi catturati, dagli sguardi ritratti nelle foto, in particolare quello di Gian Maria Volonté. Grandissimo attore, rivoluzionario sia sulla scena che nella vita e, al contempo, una figura per molti versi anche sfuggente. Ed è come se, in queste foto – di Enrico Appetito e di Mario Tursi – emergesse questo qualcosa di inafferrabile, questa particolare luce nello sguardo, l’interiorità stessa del personaggio ma anche dell’attore.
La mostra è stata proprio studiata per dare particolare risalto agli sguardi. Lo sguardo di Gian Maria Volonté cambia continuamente, ed è sempre diverso a seconda del personaggio interpretato. Ad esempio, sui tre set dei film presenti in mostra scorgiamo lo sguardo sofferente in Sacco e Vanzetti, per l’ingiustizia che si stava compiendo, lo sguardo ostile, cattivo, del personaggio di Ramon Rojo in Per un pugno di dollari, e lo sguardo perverso, subdolo – attraverso anche un impercettibile abbassamento della palpebra – del protagonista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
È una fortissima comunicazione quella che Volonté riesce a trasmettere con lo sguardo. E mio padre riesce a cogliere quello che c’è dietro di esso, e a immortalare il momento nel quale avviene questa comunicazione con chi osserva le foto. E noi riusciamo a comprendere quello che il personaggio sta esprimendo in quello specifico momento. Anche senza il sonoro, le foto hanno la capacità di introdurre lo spettatore in quel preciso istante, in quella scena in particolare, permettendogli quasi di viverla. Questo è un talento che è stato riconosciuto a mio padre sia da Alberto Sordi che da Tonino Cervi, e dallo stesso Mario Tursi. Anche Michelangelo Antonioni ha apprezzato molto lo sguardo di mio padre, di cui apprezzava la straordinaria capacità di riuscire a far vedere quello che il regista cercava di ottenere nella recitazione e nelle riprese, facendo già affiorare dalle fotografie quello che sarebbe poi stato proiettato sullo schermo. E Monica Vitti lo chiamava ‘indice d’oro’.
Come si preparava Enrico Appetito all’incontro con il set?
Il fotografo di scena, insieme al regista, al produttore, allo scenografo, aveva un copione. A lui venivano commissionati anche i sopralluoghi, che adesso sono delegati allo scenografo, e partecipava alle prove di trucco e parrucco. Dalla preparazione del film fino alla sua realizzazione, il fotografo di scena collaborava all’intera costruzione del film. Nella mostra è possibile cogliere proprio i raccordi di questa costruzione. Dalle foto emerge anche il particolare e spontaneo rapporto con i registi e io, osservandole, riuscivo a cogliere, ad esempio, quanto mio padre fosse più o meno appassionato al progetto al quale stava lavorando.
L’Archivio Appetito è stato riconosciuto di interesse storico dal ministero per i Beni e le attività culturali. Quanto è importante la tutela di questi luoghi?
È importante perché vi è la consapevolezza che questi preziosi materiali non si disperderanno poiché se ne prevede una cura, una tutela, e che quindi c’è qualcuno che continuerà l’opera che è stata iniziata. Luoghi come questi dovrebbero avere accesso nelle università – sono state già realizzate tre tesi di laurea sull’Archivio – e accogliere i giovani, ai quali vorrei insegnare i segreti affascinanti dell’archivio analogico: ad esempio, il negativo, nero, veniva numerato al rovescio con la china bianca, pertanto si scriveva da destra a sinistra.
La fotografia è un’opera d’arte, che sceglie le sue inquadrature, la sua luce, quel particolare sguardo e movimento.
Vorrei concludere chiedendoti chi è per te Gian Maria Volonté.
Per me Gian Maria Volonté è un grandissimo attore, un attivista, come si evince anche dalle fotografie fatte da Gianni Caramanico in occasione dell’occupazione della tipografia Apollon, tra il 1968 e il 1969. Lo ammiro perché per lui non era importante la celebrità, ma sfruttare il mestiere di attore per portare avanti i suoi ideali e combattere contro le ingiustizie.
Giuliano Montaldo, nel 2017, in occasione della mostra su Sacco e Vanzetti, realizzata presso il Teatro Uno di Cinecittà, ha dichiarato che Gian Maria Volonté manteneva lo stesso approccio che aveva sul set, anche fuori scena, ed era sempre attento ai mestieri del set, all’intera troupe che prendeva parte alla realizzazione del film.
Francesco, quanto sono importanti i luoghi e, in questo caso, quelli scelti per la mostra, per celebrare Gian Maria Volonté e il cinema italiano?
Sia per quanto riguarda lo Spazio scena, ubicato nei locali dello storico Filmstudio, che il Csoa la Strada, c’è stata l’idea di portare la mostra anche fuori dall’edificio pensato per l’allestimento, un po’ a voler, in senso metaforico, portare le fotografie sulla pellicola, che era il lavoro che facevano i grandi artigiani come Enrico Appetito e Mario Tursi. E quindi è stato importante dare vita a queste foto, soprattutto per il pubblico dei giovani che vedranno per la prima volta i film che saranno proiettati durante il periodo dell’evento.
E, per dare maggiore valore sinergico alla mostra, importante e, direi, fondamentale è la gratuità di tutti gli eventi, affinché siano fruibili da quante più persone possibili, e soprattutto dai giovani. Avvicinare, quindi, la bellezza di questo straordinario interprete, che è stato Volonté, allo spettatore. Spettatore non solo di immagini ma anche del cinema in senso più ampio, che racchiude sia le immagini che i suoni. In questo caso, parliamo delle musiche di Ennio Morricone, che ha realizzato la colonna sonora di tutti e tre i film presenti alla mostra.
Un vero e proprio invito alla città ad entrare…
Si, ed è stato interessante vedere entrare ragazzi, adulti, genitori e figli, coppie di fidanzati, un pubblico davvero eterogeneo. Quindi, il valore dei luoghi possiede un suo senso profondo, per la mostra e per il cinema stesso: non dimentichiamo che il WeGil e lo Spazio Scena – che peraltro costituiscono quasi una naturale prosecuzione geografica essendo due luoghi adiacenti l’uno con l’altro – si trovano nel rione Trastevere, accanto ad altre realtà importanti, quali il Cinema Nuovo Sacher e l’Associazione dei Ragazzi del Cinema America.
Ospite della mostra anche la Scuola d’Arte cinematografica Gian Maria Volonté. Qual è, oggi, il rapporto auspicabile tra il cinema e i giovani aspiranti autori? Quale la fondamentale lezione dei grandi artisti del passato?
Parto da quello che ha detto Daniele Vicari quando ha aperto, insieme a me e alle istituzioni, l’inaugurazione alla mostra. Intanto anche la scuola Volonté – di cui il regista è il direttore e uno dei fondatori – è gratuita. Un elemento importante che fa sì che vi sia un’autenticità, una sincera adesione al cinema da parte di chi decide di andare a frequentare i corsi scolastici e, dal mio punto di vista, avverto questa sorta di trait d’union, quasi un passaggio di consegne, perché lo stesso Volonté credeva nell’importanza della scuola, quale ‘bottega del cinema’ e luogo primario di formazione: lo vediamo nel documentario di Ugo Gregoretti, dove c’è anche Pasquale Squitieri che realizza le interviste per lui, e in Tre ipotesi sulla morte di Pinelli, diretto da Elio Petri e Nelo Risi nel 1970, dove alcuni attori, tra cui il giovane studente Renzo Montagnani, sono guidati da Gian Maria Volonté.
Da qui, l’inevitabile e importante omaggio: quello di far aprire a Daniele Vicari il primo degli incontri che precedono la proiezione dei film.
Tra le proiezioni in programma, anche il documentario, che hai citato, di Ugo Gregoretti, con voce narrante di Gian Maria Volonté, Apollon – Una fabbrica occupata (1969), che ricostruisce, in forma di docu-fiction, la storia di una lunga occupazione. Un film, ancora oggi, di straordinaria attualità…
Apollon – Una fabbrica occupata è attuale perché possiede ancora una sua forza storico-sociale e comunicativa. Qualche giorno fa rivedevo le foto in bianco e nero del film – che ritraggono sovente lo stesso Volonté col megafono – e osservavo, in quegli scatti, questa fabbrica di carta, dove risaltano appunto pile di carta. E l’aspetto che, tra gli altri, colpisce maggiormente, è questa capillare organizzazione della fabbrica, diventato ben presto un vero e proprio villaggio, dove venivano organizzate piccole mostre d’arte, e dove gli operai praticavano sport e mangiavano insieme (ad esempio, la sala che ospitava i convegni era diventata il teatro della fabbrica). Un microcosmo, quindi, che mostra sociologicamente una crescita organizzativa anche celere, essendo stata attuata in così pochi mesi.
Essere un attore è, prima di tutto, «tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita». È quanto afferma il grande attore, artista versatile, poliedrico e militante, totalmente immerso nel presente, che ha voluto raccontare, e farlo in un certo modo. Chiedo anche a te, dopo averlo chiesto a Tiziana: chi è Gian Maria Volonté?
Volonté era un uomo e un artista sensibile a quello che gli accadeva intorno, un attivista, un attore impegnato politicamente. Era figlio del tempo che viveva, non era impermeabile agli eventi. In Gian Maria Volonté convivevano la straordinarietà dell’uomo con quella del grandissimo interprete. Volonté era talmente immenso, e talmente contemporaneo, da essere diventato un archetipo, e anche per chi fa il nostro lavoro rappresenta il motivo per il quale noi facciamo questo mestiere. La visione dei film interpretati da Volonté, in particolare le pellicole degli anni Settanta, mi hanno positivamente colpito perché mi spingevano ad innamorarmi del cinema. E il cinema d’autore, poi, ha la grande prerogativa di costringerci a pensare, inevitabilmente, anche quando si è usciti dalla sala.
Elio Petri ha girato con Volonté forse i suoi film più scomodi, anche per le stesse modalità di realizzazione e di rappresentazione. Riprendendo ciò che ha detto Petri, sottolineerei uno degli aspetti precipui del cinema che deve saper parlare alle masse e non alle èlite intellettuali, altrimenti non serve a nulla. Volonté era colui che maggiormente aveva recepito questo tipo di lezione, cominciando a farlo già nei western (in Per un pugno di dollari e poi in Faccia a faccia di Sergio Sollima), e poi nei film politici che, per un uomo e un artista come lui – e come lo stesso Petri – attento, ostinato e versatile, non potevano non includere quel tipo di linguaggio e di complessità.