Ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, il film narra la storia di una famiglia tedesca apparentemente normale al confine con il campo di concentramento di Auschwitz. Premio Oscar come miglior film internazionale è assolutamente da vedere

Vincitore del premio Oscar per il miglior film internazionale e per il miglior sonoro –  dopo il
gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes e numerosi altri premi, tra i quali tre
Bafta (miglior film britannico, miglior film in lingua non inglese, miglior sonoro) – La zona
d’interesse è un’opera potente e imprescindibile che, già nel primo weekend di proiezioni nelle sale italiane, aveva ricevuto un importante riscontro da parte del pubblico, conquistando il secondo posto al box office.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, La zona d’interesse (Einaudi) è la storia di una famiglia tedesca apparentemente normale che vive una quotidianità cadenzata e priva di particolari slanci. Ma la loro casa, immersa in uno scenario bucolico e lussureggiante alla periferia di Oświęcim, in Polonia, è collocata al confine con il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf Höss (Christian Friedel) è il comandante. La luminosa serenità che sembra pervadere gli spazi è, in realtà, un agghiacciante contraltare di quanto accade dall’altra parte del muro, a pochi passi dall’artefatto e idilliaco ritratto familiare.

Glazer racconta, nel suo ultimo film, una delle pagine più buie e drammatiche della Storia, con uno sguardo estremamente scientifico, evitando – come afferma lo stesso regista – il ricorso a qualsivoglia artificio cinematografico. «Hanno disposto le macchine da presa in tutta la casa. Alcune erano nascoste, altre visibili. Ma non c’erano operatori… Sapevi in ogni istante di essere solo con la storia, con tutti gli oggetti che si trovavano in quella casa»: è quanto riporta, dell’esperienza sul set, Sandra Hüller (anche protagonista del film Palma d’oro al Festival di Cannes, Anatomia di una caduta di Justine Triet) che nel film interpreta Hedwig Höss, apostrofata amorevolmente dal marito come “la regina di Auschwitz”. Sarà proprio la donna, alla notizia del trasferimento di Rudolf, a voler proteggere, con meticolosa ostinazione, quell’illusorio e perfetto equilibrio, decidendo di restare, insieme ai cinque figli, nella loro abitazione. D’altronde, i bambini possono godere di “aria sana” e vivere in una casa che rappresenta, per i coniugi Höss, tutto ciò che hanno sempre desiderato.

L’efficienza del comandante nazista e dei suoi collaboratori, nel progettare e nel rendere più agevole e veloce l’operazione di sterminio degli ebrei deportati nei campi di concentramento, attraverso un complesso sistema di forni crematori ad anello, denota una totale e inquietante perdita di affetti. Nulla di umano trapela dalle loro parole, incapaci come sono di cogliere nell’altro l’umanità perduta: la loro impossibilità a ‘vedere’ reifica gli esseri umani, che divengono oggetti, carico da trasportare, pezzi da eliminare.
In questa straniante e ipnotica realtà – nella quale punire gli ufficiali delle SS che, cogliendo fiori di lillà da un cespuglio minano il decoro del campo, diviene una questione di primaria importanza -, colpisce l’irrequietezza del cane nero che si aggira per casa e che, percependo istintivamente il pericolo, sembra richiamare costantemente l’attenzione delle persone intorno: forse qualcuno al di là del muro ha bisogno di aiuto, di essere salvato.
L’area di quaranta chilometri quadrati immediatamente circostante il campo di concentramento di Auschwitz, chiamata ‘zona d’interesse’ (Interessengebiet in tedesco), nasconde, dietro l’apparente e distopica consuetudine, orrori e insidie, ben rappresentati dagli interni labirintici della casa – dove le porte delle stanze vengono metodicamente chiuse, come le luci spente, prima di andare a dormire – e dai suoi lunghi sotterranei.
Protagonista indiscusso del film è il fuoricampo, di cui viene continuamente evocata, attraverso lo straordinario utilizzo delle composizioni sonore a
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, l’ultimo film di Jonathan Glazer è
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, l’ultimo film di Jonathan Glazer è a cura di Mica Levi con Tarn Willers e Johnnie Burn, la connotazione orrorifica.

Accentuata e sostenuta, a livello visivo, dalla fotografia di Łukasz Żal e dalla scenografia di Chris Oddy, dove a prevalere è una perturbante nitidezza delle immagini, così come il candore del bianco, e delle sue tonalità, che caratterizza i costumi. Una disarmante normalità, colta nei suoi aspetti più inquietanti e, a tratti, grotteschi: la cura minuziosa dei fiori e dei prodotti dell’orto, ma soprattutto l’uscita dalla casa per recarsi a scuola o in ufficio, anticipata dal gesto ordinario dell’apertura del cancelletto che ricorda, nella sua ripetitiva ritualità, la realtà alterata di The Truman Show di Peter Weir. Solo le scene in negativo in cui compare una ragazza che, in bicicletta, si reca nei luoghi antistanti il campo per nascondere mele nel terreno, sembrano voler restituire calore e profondità all’essere umano. È la storia di Alexandria, un’anziana donna polacca che Glazer incontra durante le riprese del film e che, all’età di dodici anni, aveva preso parte alla Resistenza.

Mediante un linguaggio assolutamente innovativo, una originale grammatica filmica, Jonathan Glazer esibisce una modalità di rappresentazione che sembra delegare allo spettatore le risposte agli incalzanti interrogativi disseminati nella messinscena. Già nel precedente film, il distopico Under the Skin (2013) – tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber – Glazer mostra un’attenzione alla sperimentazione visiva e, al contempo, ai contenuti, sapientemente seminati nel sotto testo del racconto e nella composizione stessa delle immagini. Un’inedita rappresentazione dell’anaffettività.
È attraverso un’ellissi temporale che Glazer mostra, nel finale de La zona d’interesse, i luoghi di Auschwitz, divenuti nel frattempo un museo, dove, addetti alle pulizie sono intenti a lucidare vetrine contenenti scarpe e oggetti appartenuti ai deportati. Di nuovo, una rituale normalità.
Un’opera necessaria, assolutamente da vedere. Un film che il premio Oscar Alfonso Cuarón ha definito ‘il film del secolo’.

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