Era il 28 luglio 2006 quando il settimanale Left, nato in quell’anno dalla trasformazione editoriale di Avvenimenti, pubblicava l’articolo «Siamo tutti babilonesi. Giovanni Semerano e l’invenzione dell’indoeuropeo». Il provocatorio titolo redazionale era di Simona Maggiorelli, storica redattrice e dal 2017 direttrice della testata, che aveva accolto con entusiasmo la proposta di presentare l’originale e discussa teoria del linguista, pugliese di origine e a lungo direttore delle storiche biblioteche fiorentine.
Laureata in Storia antica all’università di Padova, sulle tracce degli antichi viaggiatori ero da sempre un’appassionata esploratrice, oltre che della Grecia, anche dei Paesi che dalle coste del Mediterraneo, passando attraverso l’Egitto e il Vicino Oriente, si estendono fino alla Persia.
Con interesse nel 2001 avevo letto il primo dei tre libri che Giovanni Semerano dedicò alla divulgazione delle sue ricerche, L’infinito, un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino oriente e le origini del pensiero greco. Ne avevo apprezzato l’originalità e la consonanza con una convinzione, sempre più radicata nel corso degli anni, che non aveva trovato conferme adeguate da parte degli specialisti delle lingue antiche.
Il saggio di Semerano fu seguito nel 2003 da Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua, in cui era anche presentata la traduzione delle lamine auree di Pyrgi in etrusco e in punico, e nel 2005, anno della sua scomparsa, da La favola dell’indoeuropeo, editi da Bruno Mondadori.
Solo allora scoprii che, a partire dal 1984, il filologo e linguista aveva pubblicato con l’editore fiorentino Olschki i due monumentali volumi de Le origini della cultura europea. Alle Rivelazioni della linguistica storica. In appendice: Il messaggio etrusco, nel 1994 seguì il secondo, Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indoeuropee, articolato in Dizionario della lingua greca e Dizionario della lingua latina e di voci moderne. L’opera fondamentale, che subito mi procurai, fu ristampata nel 2002, quasi a salutare l’apertura del millennio all’insegna della nuova scoperta, facendola uscire dai circoli degli specialisti. E poiché la conoscenza della storia delle parole è per lo storico un’autentica bussola di navigazione, da allora essa costituisce per me, accanto ai vocabolari delle lingue greca e latina consacrati dalla tradizione, uno strumento di lavoro prezioso, e non solo nell’ambito dell’antichistica.
Quantunque la ricerca di Semerano avesse dunque riscontrato negli ambiti accademici un’accoglienza per lo più fredda, quando non apertamente ostile, lo studioso non cessò mai il suo lavoro di ricerca. Indomito, continuò a svolgerlo fino alla fine con una tenacia pari a quella di Shahrazad, la coraggiosa fanciulla persiana che nelle Mille e una notte intrattiene con una novella diversa il sovrano che, inferocito per il tradimento, ha ucciso la moglie. E ad ogni successiva alba uccide la schiava ancora vergine con cui ha trascorso la notte.
Divenuta sua sposa, la bella Shahrazad ad ogni nuovo sorgere del sole interrompe la narrazione, con la promessa di riprenderla al calare delle tenebre. E sono mille storie che si svolgono sotto il vasto cielo d’Oriente, dall’India alla Persia, attraverso la Mesopotamia e la Mezzaluna fertile, fino alle coste del Mediterraneo. Finché, ammaliando lo sposo con il potere delle parole, l’indomita giovane donna ne vince la violenza, insegnandogli che mentre l’odio acceca e uccide, l’amore per la vita che lei esprime nel narrare, intrecciando rischiosamente storie di fedeltà e tradimento, di povertà e agiatezza, di odi e passioni, cura la mente che si è ammalata e incanta il cuore. Un messaggio quanto mai prezioso in questi nostri tristi giorni.
La complessa storia della trasgressiva raccolta, da cui Boccaccio trasse ispirazione per il Decameron, e che ancora nel 1985 fu fatta oggetto della censura egiziana, si presta a suggestive analogie con l’instancabile e contestata ricerca di Semerano. E come in arabo il numero 1000 delle novelle di Shahrazad significa “innumerevoli”, e 1001 vale per un numero infinito, nell’inesausta vena narrativa del linguista ostinato e gentile esso ben rappresenta l’infinita quantità di etimologie e di storie addotte a sostegno della propria teoria, contro la tradizionale interpretazione aristotelica dell’ápeiron anassimandreo come astratto e metafisico “infinito”.
La ricerca linguistica di Semerano veniva da lontano, aveva radici estese e dava risposte alle suggestioni suscitate da tante testimonianze archeologiche che, da Creta all’Anatolia fino alla Persia, nelle altre isole del Mediterraneo e nei paesi che si affacciano alle sue coste meridionali, avevo visitato nel corso degli anni. Offriva a larghe mani un fondamento prima inimmaginabile e risposte concrete alle tante domande sulle incongruenze, emerse rispetto a quanto avevo appreso negli anni di studio all’ateneo patavino. Dove tuttavia avevo avuto la fortuna di poter cogliere le aperture del corso di glottologia di Carlo Tagliavini, linguista apprezzato da Semerano, e delle straordinarie lezioni di letteratura greca di Carlo Diano. Ma soprattutto la curiositas sincera con cui Franco Sartori, stimato commentatore di Platone, accolse l’inusuale tema che proposi per la mia tesi di laurea, La società etrusca nella storiografia greca.
A lui devo l’incontro del 1967 a Torino con lo storico siciliano Santo Mazzarino, che quando l’Italia con la Costituzione repubblicana lasciò finalmente alle spalle anche le nefaste leggi razziali, appena trentenne era stato autore dell’illuminante opera Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica. Il volume allargava l’indagine nel campo fino ad allora meno indagato della grecità «micrasiatica», ovvero alla storia arcaica delle città greche delle coste dell’Asia Minore tra il decimo e il sesto secolo, prima della nascita e dello sviluppo dell’impero persiano.
Attraverso una minuziosa rassegna delle fonti letterarie, a partire dalla lirica greca arcaica e dall’epopea omerica fino ad Erodoto, il giovane storico siciliano aveva ricostruito lo sviluppo dei due termini Asia ed Europa nel valore semantico e dal punto di vista territoriale. Da quando essi apparvero nei miti, attraverso la storia delle colonie greche comunemente dette ioniche, fino alla nascita dell’impero persiano, fondato nel 540 a. C. I rapporti dei Greci con i popoli micrasiatici, inventori della civiltà urbana e della scrittura, erano stati prima di allora pacifici, di integrazione e di scambio, tanto da poter parlare di una koinè linguistico-culturale, come prova con evidenza la diffusione dell’arte detta «orientalizzante» anche nella Grecia continentale e nel Mediterraneo.
Ne è testimonianza la diffusa presenza in Etruria dei rilievi policromi in terracotta che decoravano i templi, e della fastosa pittura funeraria. Ma anche il fatto che la Troia descritta nell’Iliade di Omero non sia dissimile dalle città greche, che Ettore sia un eroe non diverso da quelli greci, che l’asiatico Enea, in esilio dopo la caduta della città, diventi addirittura il proto-fondatore della potenza romana.
L’opposizione si radicalizza dopo la caduta di Babilonia, nel 499 a.C. con la rivolta antipersiana delle città greche della costa asiatica, Efeso e Mileto, e con le successive invasioni persiane. Le battaglie di Maratona e Salamina, avvenute rispettivamente nel 490 e nel 480 a. C., segnano il passaggio dell’egemonia culturale greca dalle coste anatoliche, dove essa era nata con i poeti e i filosofi naturalisti ionici, alla Grecia continentale, e ad Atene in particolare. Da allora le diadi Asia-Europa e Greci-barbari, ovvero popoli definiti con disprezzo balbettanti, feroci e dalle donne lussuriose, indicano entità opposte, se non addirittura irriducibili.
Nuovi stimoli e conferme trovai più avanti nell’ateneo fiorentino, nel corso di Filosofia greca di Francesco Adorno, autore di una innovativa Storia della filosofia antica. Ma solo all’inizio del nuovo millennio venni a conoscenza dell’appartata ricerca di Giovanni Semerano. Altri anni sono trascorsi da allora. Da una prospettiva anche politica di storica dell’antichità questo lavoro, rispondente a una sollecitazione della casa editrice L’Asino d’oro, intende proporre una ricostruzione dell’originale ricerca del glottologo di Ostuni al quale, in successive occasioni, ho dedicato altri interventi su Left. Negli anni il lavoro di Semerano è stato considerato con favore da accreditati archeologi, storici e filosofi, e ha mostrato la sua validità e la sua fertilità, intrecciandosi con il mio modo di concepire e anche di mettere in scena la storia.
Il lettore perdonerà l’andamento sinuoso, rapsodico e a tratti labirintico dell’esposizione, che procede tra mitologia, archeologia, filosofia e filologia, con riprese da una prospettiva diversa di temi già toccati, come la materia, tanto estesa nello spazio e nel tempo, e lo stesso lavoro di Semerano richiedono.
Avendo dedicato questo ultimo decennio allo studio di Antonio Gramsci, il rivoluzionario che giunto a Torino dalla Sardegna ebbe una formazione universitaria di promettente linguista e fu anche un grande scrittore, fin dalla prima lettura delle Lettere dal carcere riscontrai con sorpresa che il lavoro di Semerano costituiva lo sviluppo, certo inconsapevole, di un progetto che il leader comunista aveva formulato nel 1927, all’inizio della sua carcerazione, e che in cella non ebbe poi modo di sviluppare. Da qui partiremo.
In apertura illustrazione di Francesco Del Casino
Il testo di Noemi Ghetti è stato pubblicato su Left, febbraio 2024