Aree interne e periferie urbane: nuovi spazi e nuovi modi di abitare grazie all'incontro di università, associazioni e comuni. E in Calabria a giugno si terrà la seconda edizione del Festival del lavoro nelle aree interne. Come risposta alla spopolamento e al "fallimento di mercato" rinasce il senso della collettività in zone considerate marginali

Il tuo futuro è da un’altra parte?
Per gli abitanti dei 4mila comuni periferici, intermedi, o ultra periferici d’Italia, (milioni e milioni di persone) la risposta è “sì”. E per i giovani il “Sì” è con la maiuscola.
La periferia da anni cerca il mercato che chiama, la sanità che cura, la competenza che forma. Si scappa da quattro case, un forno, ospedali senza aghi, garze e sale operatorie, pluriclassi. Del resto, perché impiegare, nella migliore delle ipotesi, tra i 41 e i 67 minuti per raggiungere un centro di assistenza sanitaria, una stazione ferroviaria dell’alta velocità, istituti di istruzione superiore? Questa è la realtà del 59% del territorio, abitato “solo” da 13, 4 milioni di persone.
Il futuro è altrove? Sì, se si guarda solo a questo.
La risposta però cambia grazie al fattore (r)esistenza, al fattore umano. Negli ultimi anni in queste aree poco conosciute, quasi abbandonate, e nelle zone più marginali delle grandi città sono nati dei laboratori di (r)esistenza.

È il caso di Gagliano Aterno, storico borgo sulle montagne abruzzesi, una volta centro nel quale confluivano persone da tutta la Vallata Subequana. Tutti quanti andavano a fare la spesa laggiù. Ci abitavano migliaia di gaglianesi. Quando l’Appennino tremò, la sera del 24 agosto 2016, nelle case di quello stesso borgo non c’erano più di trecento persone. L’economia e le produzioni locali erano ormai un ricordo dei gaglianesi che negli anni 50 erano adolescenti.

Era così quando tre anni fa Raffaele Spadano, antropologo e ricercatore del progetto Montagne in Movimento, ha avviato il suo lavoro sul campo a Gagliano. È stato un esperimento di comunità nato grazie alla convenzione stipulata dal giovane sindaco del comune, Luca Santilli, e dal Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università della Valle d’Aosta.

Gagliano Aterno, frame dal documentario Energie in movimento

Gli abitanti del paese allora non avrebbero immaginato che le strade del borgo si sarebbero popolate di studiosi e studiose ospiti della residenza universitaria creata dal progetto. Come non avevano consapevolezza di cosa fosse una comunità energetica e di come questa potesse essere una nuova spinta vitale per il loro paese. E anche per il loro tornare a sentirsi parte di una collettività. Oggi Gagliano Aterno è una dimostrazione di come si può scegliere un modello di sviluppo che nasce dal basso, che si prende cura dei luoghi e delle persone. La storia di questa trasformazione è stata raccontata anche nel documentario Energie in movimento. Gagliano Aterno, paese futuro, finanziato da Fondazione Cariplo. Ed è stato un progetto possibile prima di tutto grazie ad un percorso di recupero storico, culturale, e di un sapere che rischiava di andare perduto.

La speranza non è qualcosa di preformato, ma si costruisce con le azioni e avendo una visione più ampia delle cose. La speranza è stata, per esempio, Riace con Città Futura. Un progetto realizzato nella Calabria jonica alla fine degli anni 90 grazie alla perseveranza e all’umanità di Mimmo Lucano. Riace era all’epoca un paesino da cui gli abitanti emigravano, nel quale anche l’ultimo bar del centro aveva chiuso. Poi ci fu lo sbarco dei curdi del 1998, e iniziò una storia diversa: fatta di accoglienza e di condivisione, che regalò, tra l’altro, una seconda vita a quei luoghi ormai semi abbandonati. (V. libro di Left n.8 È stato il vento. Mimmo Lucano e Riace. Storia di una rivoluzione gentile)

Sono due esempi di realtà in cui c’era un vuoto che è stato riempito da una visione. «In antropologia alpina esiste un concetto su cui ragionare in questi casi: vuoto relativo» racconta a Left l’antropologo del “progetto Gagliano Aterno” Raffaele Spadano. «Il decremento demografico e la ritirata strategica tanto dello Stato che del mercato ci offrono degli spazi». Spazi che il giovane studioso abruzzese ha dimostrato che è possibile recuperare e “neo-popolare”. Nel paesino dell’entroterra abruzzese di cui parlavamo all’inizio, insieme ad altri ricercatori dell’Università della Valle d’Aosta e agli abitanti del luogo, è stato creato un esperimento di comunità, e un centro dato ormai per spacciato sta riconquistando la vita.

Questo doversi immaginare la vita e la felicità in un altro luogo è una cosa che accomuna gli abitanti delle aree interne della Penisola. Ed è una costante anche del percorso di vita di quelli che nascono nelle periferie d’Italia. È la marginalità il comune denominatore. La scarsità dei servizi, la mancanza di una progettualità che parta dalle caratteristiche dei territori, ha reso questi luoghi “a fallimento di mercato”.

Una definizione molto chiara di questo concetto è contenuta nel testo Comunità Appennino. Superare l’«internità» (a cura di Piero e Gianni Lacorazza), volume pubblicato da Rubbettino editore a gennaio 2024. Nel saggio a firma di Dora Iacobelli, vicepresidente di Legacoop, e Paolo Scaramuccia, responsabile per la stessa associazione del progetto sulle cooperative di comunità, possiamo leggere: «Un numero considerevole di territori è a cosiddetto “fallimento di mercato”, spiegano. Sono territori che, a causa dello spopolamento e per difficoltà nei collegamenti, non sono sufficientemente remunerativi e quindi le imprese, in particolare le più grandi, non vi investono e non vi sviluppano la loro attività».

Nel caso delle aree interne il copione si è ripetuto immutabile: crisi (economica e/o catastrofe naturale), spopolamento, decadimento dei servizi e delle comunità. A questo si è andata ad aggiungere una mentalità che da almeno due generazioni spinge i più giovani a non immaginare più una possibile ripresa. Il classico: “Chi te lo fa fare”. Un mantra che parenti, amici e conoscenti ripetono a chi vorrebbe mettersi in gioco tentando di costruire qualcosa.

A questo si è aggiunta una politica di soluzioni calate dall’alto. Come ha spiegato a Left il professor Augusto Ciuffetti, docente di Storia economica nell’Università Politecnica delle Marche: «Le Regioni dalla loro costituzione ad oggi hanno prodotto tante norme sulle aree montane o aree interne. Non hanno però varato delle vere politiche di riequilibrio dei territori da un punto di vista economico e sociale, anzi hanno sistematicamente tagliato servizi. In qualità di presidente dell’associazione RESpro – Rete di storici per i paesaggi della produzione – ho avuto modo di investigare e supportare le comunità dell’Appennino e sono convinto che sia necessario ribaltare la prospettiva e di ricostituire le comunità. Così potremmo rendere le persone consapevoli dei loro bisogni e delle potenzialità».

«Non si tratta di una spinta singola, c’è una letteratura molto interessante anche in America a proposito delle aree interne. In Italia ci sono diversi attori, già scesi in campo con progetti concreti, penso alla Fondazione Appennino, al progetto RESpro, alla Fondazione Magna Carta», ci racconta Florindo Rubbettino. L’editore di Soveria Mannelli (paese delle zone interne del catanzarese) ha intuito l’importanza di un movimento che in Italia è già realtà e, difatti, nei giorni 13 e 14  giugno si terrà la seconda edizione del Festival dedicato ai temi del lavoro e delle aree periferiche, organizzato proprio dalla sua casa editrice (è stata pubblicata la Call for papers and poster con scadenza il 7 aprile ndr). «L’interesse per le aree interne è connaturato nella nostra storia e nel nostro essere parte di un territorio che ha certe caratteristiche. Proprio per questo però crediamo nel potere del progettare, nel realizzare nuovi spazi e nuovi modi di abitare e di innovare anche in questi luoghi. Senza senso di inferiorità o di sfiducia. Se guardassimo solo ai problemi non muoveremmo mai un passo». Anche Rubbettino vede nella comunità una delle chiavi di volta di queste realtà: «Dove c’è comunità c’è socialità e c’è felicità. Queste nascono dove ci sono opportunità di futuro che sono generate dal lavoro e prospettive di vita. Le aree interne non devono essere messe sotto una campana di vetro per turisti e studiosi. Non devono essere oggetti, ma devono diventare soggetti».

Questo fenomeno di marginalizzazione non è poi così diverso da ciò che avviene tra centro e periferie delle città. In questi casi si potrebbero sottolineare le differenze nell’efficienza dei servizi (meno trasporti, uffici più distanti, condizioni peggiori delle strutture sanitarie) o nelle possibilità economiche tra cittadini e cittadine. Il dato che evidenzia in modo indiscutibile una differenza di accesso alle possibilità è quello relativo all’istruzione.

Secondo l’Istat nei comuni capoluogo, nel 2022, i residenti con la laurea o con un dottorato di ricerca nelle prime cinture urbane sono il 21%, con un calo di 2 punti e mezzo nei territori delle seconde cinture. In città metropolitane come Milano, Bologna e Roma la percentuale di persone nella fascia d’età tra 25 e 64 anni con laurea va dal 29 al 31%. Come dimostrano questi numeri, le disuguaglianze non riguardano solo le aree interne o impervie e le città, lo stesso meccanismo di esclusione è replicato in modo perfetto tra centri urbani e zone marginali.

E se questi dati non fossero sufficienti, ci sono quelli emersi dal rapporto Periferie urbane di Save the Children, pubblicato ad ottobre 2023. La ricerca ha disegnato mappe cittadine in cui sono evidenti le forti disuguaglianze tra quartiere e quartiere in termini di opportunità per i minori. Sono proprio le zone più disagiate ad offrire meno strumenti che permettano un’ascesa sociale attraverso lo studio. A Roma in 9 municipi su 15 ci sono forti elementi di svantaggio, a Napoli in 7 su 10. E questo rende molto più difficile per queste persone emergere dalla condizione in cui si trovano.

Ogni storia però ha due facce. E se questi numeri potrebbero portare a pensare a questi luoghi come senza speranza, ci sono altre vite che raccontano una realtà diversa.
A Napoli, ad esempio, esiste un progetto per il recupero delle acque disperse che ha come obiettivi: proteggere le biodiversità, sostenere la rigenerazione urbana, creare un sistema resiliente ai cambiamenti climatici. Alexander Valentino, architetto e attivista di LAN (Laboratorio di Architettura Nomade), in una lunga chiacchierata ci ha spiegato come sotto la città partenopea ci siano gli antichi canali che fornivano acqua ai napoletani. Sorgenti che si trovano ancora sotto le vie di Conca di Agnano, Volla-Ponticelli e a Santa Lucia in pieno centro cittadino. E con il progetto Cool City l’associazione vuole creare un percorso per rintracciare questi fiumi sotterranei, per restituire la memoria delle acque ai cittadini e alle cittadine.

Quella che ci descrive Valentino è una realtà in cui vediamo competenze per cambiare e una progettualità in grado di instaurare un modo più rispettoso di vivere i luoghi. E più comunitario che individualistico. Sono azioni che hanno un impatto poi sulla collettività e che restituiscono un senso di bene comune. Allo stesso tempo questa iniziativa crea un impatto sulla vita delle persone, le riporta a prendersi cura dei luoghi in cui vivono e restituisce loro il senso dei beni comuni, il rispetto per le risorse. Secondo un concetto organico di sostenibilità. Quest’ultima è una parola che forse stiamo svuotando di senso a furia di farne un uso generico. Sostenibilità è ritrovare un’armonia con i tempi e con i luoghi che si abitano. Sostenibilità è un riscoprire i legami e il senso della collettività. Sostenibilità è un ragionare per impatti: ambientale, economico e sociale, ma anche relazionale.

Ed è proprio ripartendo da questo concetto, e dall’attenzione al territorio e alla sua storia – sia culturale che produttiva – e al senso dell’abitare che sono nati progetti in tutta Italia che capovolgono del senso di inevitabile sconfitta che ben conosciamo. Si tratta di laboratori di (r)esistenza che si sviluppano dal basso, che hanno come primo obiettivo il recupero della comunità nel suo significato più intimo, nel suo indicare un’unità. Anche nelle idee e nel vivere.

L’ultimo Rapporto Istat ha previsto che entro il 2050 il 70% di italiani e italiane migrerà verso coste e grandi poli urbani. Sono numeri che non tengono conto di coloro che, come scrive Vito Teti ne La restanza (Einaudi editore), «al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di sé stessi».

In apertura: frame del trailer del documentario Energie in movimento