Cosa significa l’antifascismo oggi? Lo abbiamo chiesto a Davide Conti. «Lottare per l’applicazione integrale della Costituzione, contro il tentativo di suo stravolgimento (dal premierato all’autonomia differenziata) è uno dei punti da cui partire - dice lo storico - riprendendo il conflitto democratico»
Murale di Orticanoodles a Milano
Nel nostro incerto tempo presente il modo migliore per conferire un orizzonte di senso compiuto all’anniversario dell’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945 come data fondativa del nuovo Stato italiano (che diverrà Repubblica il 2 giugno 1946 con il voto popolare) non è certo quello della retorica celebrativa.
Le donne e gli uomini della Resistenza hanno sempre insistito sulla necessità di utilizzare quel lascito storico come chiave interpretativa per comprendere cosa fosse stato il fascismo nella sua identità economico-sociale e politico-culturale nonché quali e quanto profonde fossero state le sue radici dentro il corpo della nazione italiana. Su questo concetto tornavano spesso, negli ultimi anni della loro vita, comandanti partigiani come Rosario Bentivegna (Gruppi di azione patriottica di Roma e Brigate Garibaldi in Jugoslavia) o Massimo Rendina (Brigate Garibaldi in Piemonte).
Era la loro capacità di cogliere le fragilità sociali, civili e culturali della società italiana a spingerli ad indicare quella strada come la principale eredità da valorizzare della guerra di Liberazione. Come se prima ancora di solennizzare l’epica resistenziale fosse indispensabile capire i motivi per cui l’Italia fosse giunta alla dittatura terroristica, alle guerre coloniali, alle leggi razziali, alle aggressioni militari nei Balcani e al «Patto d’acciaio» con i nazisti.
Alla fine della prima guerra mondiale il fascismo si presentò come un fenomeno eversivo inedito, esprimendo caratteri peculiari che trovarono nella nostra società (e non altrove) le condizioni per l’avvento al potere di un regime reazionario per la prima volta strutturato su base di massa ovvero in grado di raccogliere un largo consenso in tutti gli strati della società nazionale.
Un favore cui fece eccezione la classe operaia che alla Fiat di Torino accolse sempre con malcelata ostilità le visite di Mussolini nel 1932, 1934 e 1939 e che con gli scioperi del marzo 1943 e del marzo 1944 (sotto occupazione nazista) impresse un segno indelebile a quella che sarebbe stata la Liberazione.
Il fascismo fu senz’altro quella «autobiografia della nazione» descritta da Piero Gobetti, caratterizzata dall’arretratezza culturale e politica del Paese e dalle aporie strutturali del suo processo di unificazione nazionale. Insieme fu anche espressione di quel «sovversivismo delle classi dirigenti» indicato da Antonio Gramsci il cui esito venne preconizzato dallo stesso fondatore del partito comunista sulle pagine de L’Ordine Nuovo il 21 luglio 1921: «Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese.
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login