Libertà e identità della donna, nonviolenza, valore della conoscenza, ribellione a qualsiasi forma di sfruttamento. Sono queste le idee controcorrente di Voltairine de Cleyre, anarchica e pacifista nell’America dell’Ottocento, che oggi si riscoprono attraverso i suoi libri
Leggere gli scritti di questa donna, Voltairine de Cleyre, inusuale anche nel nome, è come essere travolti da un fiume in piena, né si può restare indifferenti sotto lo scrosciare irrefrenabile di parole, immagini, analisi storiche e sociologiche. Si è travolti da sentimenti contrastanti: ammirazione, amore, mentre a volte ti cresce dentro un muro di non accettazione. Mentre in Francia è appena uscito De l’action directe suivi de: L’idée dominante da Les éditions L’Alchimiste, in Italia sono stati pubblicati, dopo più di cento anni, due libri: Una poetessa ribelle (Stampa alternativa, 2018) e Un’anarchica americana (Eleuthera, 2021), che ci forniscono un’idea della vasta produzione di lettere, poesie, traduzioni, racconti, saggi, novelle, conferenze. Ma chi era Voltairine de Cleyre? Una donna difficilmente incapsulabile in parole quali anarchica, poetessa, libertaria, scrittrice, ribelle, femminista. Di lei Emma Goldman scrive: «La più dotata e brillante donna anarchica che gli Stati Uniti abbiano mai generato». Si conoscevano per la collaborazione di Voltairine a Mother Eart (rivista diretta da Goldman dal 1906 al 1917), nonostante le divergenze su questioni rilevanti; Emma ama la vita e cerca di goderla, Voltai (come la chiamano in famiglia) non cerca la felicità ma la realizzazione umana, a dispetto del pessimismo con cui guarda alla società. Uno sguardo, il suo, che rasenta la depressione e che affonda le sue radici nell’ambiente familiare, funestato dall’annegamento di una sorellina e negli anni sofferti dell’istituto di suore in cui il padre, socialista povero e libero pensatore, la manda per darle un’educazione che sviluppi a pieno le sue capacità. Sospettiamo che tale decisione fosse dettata dall’incapacità o impossibilità di imbrigliarla in comportamenti socialmente accettabili. Se c’è un termine, infatti, che meglio la descrive è “ribelle”. A quattro anni impara a leggere da sola e si arrabbia per non essere stata accettata dalla scuola pubblica. E a sei anni scrive poesie. Gli anni del collegio la vedono “ragazzina smarrita” in un ambiente ipocrita e autoritario: «Sarei dovuta diventare una suora, passando il resto della mia vita a celebrare l’Autorità nella sua forma più manifesta», racconta in Un’anarchica americana e prosegue: «Ero una povera anima che combatteva solitaria nelle tenebre della superstizione religiosa. Ricordo bene con quanta energia e rabbia mi rifiutai di sottostare alle ingiunzioni della mia insegnante, dicendole che non avevo alcuna intenzione di scusarmi per una colpa che non mi poteva essere imputata e che se l’avessi fatto, le mie parole non sarebbero state sincere. “Non è sempre necessario - mi rispose lei - dire sinceramente ciò che pensiamo, mentre è sempre necessario obbedire ai propri superiori”. Io non mentirò».

Questo articolo è riservato agli abbonati

Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login