Nell’ambito della campagna di Left contro l’autonomia differenziata pubblichiamo il testo dell’audizione da parte della Prima Commissione Camera dei Deputati di Marina Boscaino, portavoce nazionale dei Comitati per il ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti e del Tavolo NOAD.
I comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti hanno iniziato il proprio lavoro di contrasto al processo di autonomia differenziata dall’ottobre del 2018. I Comitati in tutti questi anni si sono documentati, hanno svolto azione di studio, (contro)informazione e mobilitazione, e sono stati promotori di un Tavolo contro l’autonomia differenziata che raccoglie oggi decine di associazioni, gruppi, sindacati di base, settori del sindacato confederale, partiti politici.
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Il nostro giudizio sulla riforma del Titolo V del 2001 si basa su alcuni pronunciamenti autorevoli: quello del prof. Gianni Ferrara, ad esempio, che la definì «un manifesto di insipienza giuridica e politica»; il prof. Giovanni Maria Flick ha parlato – in merito all’autonomia differenziata – di «riforma frettolosa e disorganica, destinata ad aumentare le diseguaglianze nel Paese»; il prof. Ugo De Siervo l’ha definita «una riforma para costituzionale, una riforma parziale e impugnabile davanti alla Corte, in cui a perdere sono solo gli italiani, che amplia la possibilità di estendere i poteri di alcune Regioni, ma senza modificare le altre norme costituzionali che già esistono». Nel corso della nostra ormai quinquennale attività, abbiamo insistito – quale provvedimento di emergenza, ferma restando la nostra critica radicale a tutto l’impianto della riforma del 2001 – sulla necessità della cancellazione del c. 3 dell’art. 116 Cost., che comporterebbe l’impossibilità per le regioni a statuto ordinario di accedere alla potestà legislativa esclusiva fino a 23 materie, previste nei c. 2 e 3 dell’art. 117 Cost. In generale, riteniamo che un governo, dei governi che avessero davvero a cuore il Paese, avrebbero pensato non all’autonomia differenziata, ma ad una rivisitazione dell’intero Titolo V, foriero – peraltro – di ricorsi continui in Corte Costituzionale, altrettanti quanti – pensiamo – ce ne saranno se l’ad dovesse diventare legge. Crediamo che l’autonomia differenziata colpirà, senza distinzione, le cittadine e i cittadini più deboli di ogni parte del Paese, ovunque risiedano, dal momento che essa sottende – come ad esempio dimostrano perfettamente i sistemi sanitari lombardo e laziale, privatizzati per il 50% dal 2001 ad oggi – la ricerca di profitto e dunque la privatizzazione, che escluderà proprio i più bisognosi dall’esigibilità dei diritti universali. Così come, prevedendo l’affiancamento al contratto collettivo nazionale di contratti regionali – e dunque parti diverse tra eguali – l’autonomia differenziata costituisce un attacco alle conquiste e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
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«Il report della Fondazione Gimbe fotografa un fallimento della sanità nel Mezzogiorno e una difficoltà anche nelle Regioni del Nord in sanità, a legislazione e a Costituzione vigenti. Il report, comunque, si dimentica che la vituperata sanità parzialmente regionalizzata viene classificata in tutte le graduatorie mondiali tra le top ten e, secondo Bloomberg, addirittura al terzo posto a livello mondiale. Per cui, con buona pace di Gimbe, noi stiamo male ma non troppo, e tutto il resto del mondo sta peggio». Così il ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, il 21 marzo ha replicato ai dati contenuti in un report della fondazione Gimbe sugli effetti dell’autonomia differenziata in sanità. «L’autonomia differenziata è stata proposta per rimediare al disastro del Sud e ai problemi del Nord, quindi per rendere più efficienti le prestazioni in tutto il Paese. (…) Intendo proseguire su questa linea, piaccia o non piaccia a Gimbe e agli altri catastrofisti del Paese». In questo modo è stato liquidato lo studio di una fondazione indipendente, che da anni analizza il nostro sistema sanitario, evidenziando le conseguenze già drammatiche dell’attuale potestà legislativa concorrente stato/regioni in tema di salute. Inguaribili pessimisti anche gli scienziati che il 4 aprile hanno parlato di «crisi grave, assistenza a rischio»? E L’Anci, che parla di «gravi tagli alle regioni non autosufficienti dal 2027»? E la Corte dei Conti, con il suo recentissimo documento? I “catastrofisti”, come li ha chiamati il ministro, sono moltissimi, e non solo esimi costituzionalisti, quali quelli che ho citato precedentemente. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, alla Banca d’Italia, dalla Corte dei Conti persino alla Commissione europea (che nel Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Relazione per Paese 2023 – Italia,{COM(2023) 612 final}, Bruxelles, 24.5.2023, p. 19) ha affermato: «Nel complesso, la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni pubbliche di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche dell’Italia e sulle disparità regionali») non c’è che l’imbarazzo della scelta. Tra i catastrofisti c’è addirittura la Cei – Conferenza episcopale italiana – che quotidianamente esprime la propria avversione all’autonomia differenziata, insistendo sull’aumento delle diseguaglianze che essa comporterà. Da ultimo le Acli hanno lanciato l’ennesimo allarme. A tali pronunciamenti aggiungo un fatto ugualmente significativo: le dimissioni dalla Clep (Comitato per i livelli essenziali di prestazione), presieduta dal prof. Cassese, di alcuni degli artefici della Riforma del Titolo V: in particolare Giuliano Amato e Franco Bassanini. È un fatto che indica esplicitamente l’irricevibilità delle procedure che stanno portando alla conclusione di questo percorso, e – nella fattispecie concreta – la mancata determinazione dei Livelli essenziali di prestazione e la possibilità di procedere sulla base del vincolo di bilancio di sanare le enormi sperequazioni che esistono tra territori nel nostro Paese. L’art. 3 della Costituzione al c. 2 parla chiaro, là dove individua nei compiti della Repubblica la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Lì risiedono – a nostro avviso – i Lep, e su questo compito il governo dovrebbe insistere in via prioritaria. Non nella frammentazione della Repubblica stessa e nella determinazione dei diritti sulla base del certificato di residenza. Crediamo davvero che il Ponte sullo Stretto renderà più uguali i cittadini e le cittadine di due regioni che soffrono di una carenza infrastrutturale che li colloca tra le zone più depresse del mondo occidentale? Fate un viaggio sulla Ionica, linea a binario unico che collega Taranto a Reggio Calabria. O – ancora – provate ad andare in auto da Palermo a Catania: viaggi della speranza.
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Perché, dunque, il governo va avanti senza tentennamenti? Come mai non ci si chiede per quale motivo soggetti e istituzioni certamente non “di parte” esprimano un allarme così generalizzato? Per quale motivo un passo di fatto irreversibile non ispira un minimo di cautela, e si preferisce – invece – la prova muscolare? Qualsiasi convinzione delle proprie buone ragioni non può non tener conto di una valanga di allarmi che piove quotidianamente sul governo; così è stato nel corso delle audizioni informali in Senato; altrettanto qui alla Camera dei deputati. Si tratta di catastrofismo o di comprensione profonda e motivata delle conseguenze di carattere amministrativo, legislativo, costituzionale, economico, imprenditoriale (anche le piccole aziende del nord che svolgono la propria attività su più regioni non resisteranno alla gestione differenziata delle normative), in termini di diritti universali, di diritti sociali e civili, di forma istituzionale della Repubblica, di vulnus alla democrazia? Tutti stanno chiedendo di fermarsi adesso: dopo sarà troppo tardi; perché dopo, come predisposto dal testo del ministro Calderoli, sarà impossibile, considerando il criterio della decennalità.
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Il 20 febbraio scorso il ministero della Sanità – ancora non un pericoloso manipolo antigovernativo – ha rivelato che i Lea – Livelli essenziali di assistenza – sono garantiti solo in 8 regioni su 20. L’esercizio del diritto universale alla salute è diventato una chimera; tanto più da quando, con la Riforma del Titolo V, sono state avocate alle regioni – in virtù della potestà legislativa concorrente – importantissime funzioni in quel settore. Le criticità ora non riguardano più il Mezzogiorno: le nuove regioni inadempienti sono quelle del Nord Ovest (Piemonte e Liguria) e del Centro (Lazio e Abruzzo). Questi dati parlano al cuore del Paese, ma non evidentemente al cuore della maggioranza. Questi dati, però, dimostrano chiaramente che la gestione regionale della sanità ha provocato un arretramento generalizzato di un diritto che segna il limite tra la vita e la morte. O, quantomeno, tra una qualità della vita dignitosa garantita dalla Repubblica e da una Costituzione sulla quale i membri del governo hanno giurato.
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Come siamo arrivati fin qui? Il 7 ottobre 2001 si celebrò il primo referendum costituzionale nella storia repubblicana, che vide la prevalenza dei sì col 64,2% dei voti, con un’affluenza attestatasi al 34,1% dei votanti. Il 22 ottobre 2017 si celebrò il referendum veneto (e porto l’esempio più eclatante rispetto all’omologo referendum consultivo in Lombardia) – con il seguente quesito: Vuoi che alla regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia? Con il 57,2% di votanti, che per il 98,1% si espressero per il sì, si suggellò l’inizio delle procedure che dettero via alle pre-intese del 28 febbraio 2018. È evidente che il passaggio referendario (con qualsiasi risultato) legittimi formalmente chi sta procedendo; ma è responsabile devastare la repubblica e i principi fondamentali della Carta forti di consultazioni che hanno coinvolto pochissime persone, peraltro orientate nel 2001 da vistose ignoranza e noncuranza, nel 2017 da una domanda che omette completamente la complessità del tema? «Non è una secessione dei ricchi, ma una opportunità per tutti», ha detto qualche giorno fa Luca Zaia. Sulla base di quali dati? La maggioranza conta sulla disinformazione dell’opinione pubblica rispetto a cosa sia effettivamente l’Ad e quali ne saranno le conseguenze; e purtroppo c’è stato un silenzio stampa a livello nazionale e solo poche forze si sono impegnate in un’azione di informazione e di dibattiti pubblici; oggi certo l’Ad è spesso nelle cronache politiche e, ciononostante, una recente statistica ha evidenziato come solo il 19% delle italiane e degli italiani sanno oggi cosa sia l’Ad. Noi abbiamo sempre chiesto che si attivassero canali di dibattito pubblico, che venissero coinvolti i Comuni, che le istituzioni pubbliche a partire da quelle regionali, si facessero promotrici di pubbliche discussioni e attivassero i propri mezzi di informazione, anche social. Nulla di tutto ciò è avvenuto. D’altra parte, quando le istituzioni, chiamiamole esperte in materia economica, hanno indicato al governo gli effetti devastanti dell’Ad – penso all’Upb (Ufficio parlamentare di bilancio), alla Banca d’Italia, alla Confindustria, soprattutto quelle del Mezzogiorno – il governo ha fatto ‘orecchie da mercante’. Ai puntuali rilievi critici contenuti anche nelle Memorie consegnate alla I Commissione del Senato e ora a questa Commissione, il governo e la sua maggioranza non hanno mai risposto e hanno proceduto all’approvazione del ddl Calderoli in un ramo del Parlamento. Vorrà questa Commissione tenerne conto? Per quanto pensano le forze della maggioranza che la mancanza di una diffusa informazione da parte delle cittadine e dei cittadini potrà tutelarle dalle conseguenze catastrofiche – da tutti quei punti di vista – che le intese tra governo e regioni produrranno? Il bacino elettorale del Sud quanto potrà rimanere inalterato nel momento in cui le persone si renderanno conto che sulle loro esistenze è stata compiuta una scelta di mortificazione e dismissione del loro futuro? Nel momento in cui la Calabria si renderà conto che le proprie 0 terapie infantili pediatriche con 2 milioni di abitanti contro le 4 del Veneto con 4 milioni di abitanti non sono destinate a variare? Che gli asili nido di Reggio Calabria rimarranno 2 contro i 60 di Reggio Emilia? E alle donne di tutto il Paese cosa racconterete? Che di asili nido non c’è bisogno perché tanto il lavoro non c’è? E che di consultori ancor meno, perché tanto il loro destino è rimanere a casa? Avete tenuto conto del fatto che l’abolizione del valore legale del titolo di studio porterà – come nel caso della mobilità sanitaria – un ulteriore spopolamento del Sud, con una migrazione dei e delle giovani delle famiglie benestanti di quelle zone, per accedere alle certamente più quotate scuole del Nord; perpetuando un fenomeno che già ha investito l’università? Mi si dirà: c’è un mandato elettorale. Pensate davvero di considerarlo – in una campagna elettorale che ha detto tutto e il contrario di tutto (autonomia differenziata e presidenzialismo) – indizio di consenso nei confronti del progetto distruttivo della Repubblica. Non alimenterà tutto ciò l’astensionismo? Le omissioni di ciò che bolle in pentola anche per chi ha votato centro-destra sono colpevoli quanto il silenzio trasversale sulla raccolta firme che i comitati dell’Emilia Romagna hanno portato a termine con successo per presentare una legge di iniziativa popolare che chiede al presidente Bonaccini di recedere dalle pre-intese. In Campania la Lega porta avanti la campagna “Differenziamoci”: incontri secretati o clandestini, si dovrebbe pensare, non pubblicizzati dai giornali, evidentemente per evitare che la democrazia prevalga e vi acceda chi è contro o chi sia in grado di controbattere. Le nostre proteste ai rarissimi giornali che ne hanno dato notizia, omettendo data e orari degli incontri stessi, sono rimaste inascoltate. Omissioni e silenzi sono le prove di una volontà autocratica, che toglie voce ai cittadini e alle cittadine, comprime gli spazi di partecipazione, nella convinzione che il popolo, la gente, la persona umana conti ormai nulla.
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Il ministro Calderoli – in Senato e in diverse dichiarazioni – ha ripetutamente affermato che sta attuando la Costituzione. Dimentica, però, che la Carta non si esaurisce negli artt. 116 e 117, ma – nell’ambito dello stesso Titolo V – prevede le disposizioni del 119, così come – e prioritariamente – i primi 12 artt. i fondamenti e i principi della Costituzione, e tra questi l’art. 5, che afferma il principio del regionalismo solidale e la sussidiarietà verticale, che individuerebbe nei Comuni i destinatari di quel tipo di autonomia, determinata nell’alvo della Repubblica “una e indivisibile”. Quei comuni che saranno ulteriormente penalizzati dal centralismo regionale che l’autonomia
differenziata sdogana. Alla luce di quei principi, nei quali crediamo profondamente e intransigentemente, e a cui abbiamo ispirato la nostra partecipazione all’ «organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (cui ci chiama esplicitamente la Costituzione), ringraziamo per averci dato in questa sede la possibilità di esprimere le nostre ragioni, nella speranza che possano apportare riflessioni, dubbi, ripensamenti rispetto ad un progetto di divisione della Repubblica e di frantumazione dei diritti dei suoi cittadini e cittadine, differenziati sulla base del loro certificato di residenza e di un presunto “merito” che non può – pur nella consapevolezza di quanto talvolta la gestione della cosa pubblica al Sud sia stata deficitaria – essere pretesto e condizione per scardinare uguaglianza, solidarietà, centralità della persona umana, regionalismo cooperativo.
Nella foto: il ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, frame del video di Porta a Porta, 16 febbraio 2023
Qui il testo dell’audizione del giurista e costituzionalista Giovanni Russo Spena
Qui il libro di Left contro ogni autonomia differenziata