Dal caso Agi-Angelucci alla par condicio svanita alla Rai, gli esempi della concentrazione del potere mediatico messo in atto dalla destra è ormai evidente e ha avuto il merito di risvegliare dal letargo le opposizioni parlamentari. Quello che manca è una riforma di sistema che garantisca pluralismo dell'informazione e soprattutto il diritto di tutti i cittadini a essere informati

«L’idea di creare un’agenzia latinoamericana non è certamente originale. … Noi, che soffrivamo il monopolio delle notizie, dell’informazione, dell’opinione pubblica che creavano le agenzie statunitensi, o quello dell’assenza di informazione, dell’occultamento e della distorsione, sentivamo la necessità di creare un’agenzia di stampa». (La idea de crear una agencia latinoamericana no es por cierto original. Nosotros, que sufrimos el monopolio de las noticias, de la información, de la opinión pública que creaban las agencias yanquis, o el de la no información, el ocultamiento y la distorsión, sentimos también la necesidad de crear una agencia noticiosa (Masetti).

Così l’argentino Jorge Masetti spiegava il senso della creazione a L’Avana dell’agenzia di stampa “Prensa Latina”. Nata nel giugno 1959, a soli sei mesi dalla vittoria della rivoluzione cubana, rispondeva all’esigenza di disputare il racconto di ciò che avveniva a Cuba e nel mondo intero. Era cioè uno strumento di battaglia ideologica nel campo della comunicazione e dell’informazione.

Sessanta e passa anni dopo, gli eredi di quella lezione vanno cercati, paradossalmente, nel campo dell’estrema destra. Se negli Usa il modello Fox News si è imposto a partire soprattutto dall’inizio degli anni 90, oggi assistiamo in Francia all’ascesa dell’imprenditore Vincent Bolloré, azionista di maggioranza del colosso Vivendi, con la costruzione di un polo mediatico che con la sua stampa e la sua Cnews (seconda rete di notizie più seguita in Francia) promuove le idee care all’ultradestra politica: difesa dei confini, del capitale, della proprietà; identificazione del nemico nel migrante, nell’abitante delle banlieues; ordine e disciplina; fake news come se piovesse.

L’Italia del laboratorio dell’ultradestra politica capitanata da Meloni non poteva essere da meno. Antonio Angelucci è il nome nuovo da segnare sui taccuini. Imprenditore della sanità privata e non solo, politico e parlamentare e oggi, sempre più, tycoon mediatico.

Nuovo, in realtà, Angelucci non lo è. Nato nel 1944 in un piccolo centro della provincia italiana, comincia a lavorare come portantino all’Ospedale San Camillo di Roma. Ed è lì che la sua vita subisce una svolta. Entra in una cordata che acquisisce una casa di riposo a Velletri. È il primo passo di una scalata che sembra ancora oggi inarrestabile. Ben 22 le strutture sanitarie private di sua proprietà, 3.500 posti letto, ben 4.000 dipendenti, mille medici.

La sanità privata va a gonfie vele, anche grazie alla distruzione di quella pubblica, promossa attivamente da molti dei governi che Angelucci ha sostenuto nel suo ruolo di parlamentare della Repubblica (col record di assenze in aula, che hanno toccato anche il 99,8%). È infatti alla sua quarta legislatura da deputato. Entrato a Palazzo Montecitorio nel 2008, eletto nelle file della Forza Italia di Berlusconi, dalle ultime elezioni del 2022 siede tra i banchi della Lega di Salvini.

In questi anni Angelucci ha diversificato i suoi investimenti, a partire dal sempreverde mattone. Il tutto sotto l’ombrello dell’impresa capofila di famiglia, la Tosinvest (acronimo delle iniziali Tonino e Silvana, rispettivamente soprannome e prima moglie di Angelucci). La finanziaria è a sua volta controllata da una società con sede in Lussemburgo, la Tree sa, perché, si sa, l’ultradestra sarà anche “sovranista” ma le tasse preferisce (non) pagarle sotto altra bandiera.

La “Tree SA” controlla anche Tosinvest Editoria che a sua volta controlla quotidiani locali (Corriere dell’Umbria) e tre importanti nazionali: Libero, Il Tempo e, da poco, anche il quotidiano prima afferente alla famiglia Berlusconi, Il Giornale.
Angelucci, però, non sembra intenzionato a fermarsi e ha messo nel mirino la seconda agenzia di stampa italiana, l’Agi, oggi di proprietà di Eni, colosso pubblico dell’energia fossile.

La galoppata di Angelucci può contare sul sostegno del potere politico. A decidere sulla vendita di Agi sarà infatti il proprietario dell’agenzia di stampa, vale a dire il ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), che la controlla tramite Eni, società partecipata dal Mef. Chi è oggi a capo del Mef? Giancarlo Giorgetti, esponente di spicco della Lega, partito con cui è stato eletto Angelucci.

L’operazione incontrerebbe anche il favore di Fratelli d’Italia e della stessa Meloni. Gli addetti ai lavori considerano fondata l’ipotesi secondo cui il regista sarebbe Mario Sechi, ex direttore proprio di Agi prima di passare a svolgere la funzione di portavoce della presidente del Consiglio Meloni. Incarico che svolse per pochi mesi, prima di spostarsi nuovamente al suo attuale impiego: direttore di quel Libero, che è di proprietà della fondazione San Raffaele, riconducibile ad Angelucci e che ogni anno riceve circa 3 milioni di euro di fondi statali destinati all’editoria.

Nel caso in cui l’acquisto di Agi da parte di Angelucci dovesse andare in porto, avremmo dunque un polo mediatico, megafono dell’ultradestra politica ed economica, che potrebbe giocare di sponda col colosso televisivo delle destre già esistente: quella Mediaset di proprietà della famiglia Berlusconi, proprietaria di tre reti televisive che totalizzano ascolti pari o addirittura superiori alle tre reti della Tv pubblica, la Rai.

Si tratterebbe della chiusura del cerchio. L’obiettivo è infatti ambizioso.
Produzione di notizie tramite l’agenzia di stampa – amplificazione e commento delle stesse tramite i quotidiani e le reti Mediaset – costruzione su questa base di un “senso comune” – intervento politico di maggioranza parlamentare e governo Meloni.
È né più che meno che la sintesi di un progetto politico-economico-mediatico che riconosce nei media uno strumento indispensabile per la costruzione di “egemonia”.

E non finisce qui. Perché, anche grazie alle riforme targate centrosinistra (all’epoca del governo Pd guidati da Matteo Renzi), oggi più di prima l’esecutivo può controllare anche la Tv pubblica. È l’esecutivo a stabilire nomine e incarichi, non più il Parlamento. E il governo Meloni non si è fatta scrupoli nel piazzare i propri uomini nei posti chiave della Rai. Non solo: negli ultimi giorni alcuni emendamenti di parlamentari legati a Fratelli d’Italia lanciano l’offensiva sui tempi cui gli esponenti politici avranno diritto in Rai in occasione della campagna elettorale delle Europee dell’8 e 9 giugno. L’obiettivo è garantire più minuti di messa in onda agli esponenti di maggioranza parlamentare e governo, tanto dal punto di vista quantitativo che qualitativo (il “prime time” vale più che un programma in onda a tarda notte, ma al momento il sistema di “par condicio” vigente in Rai non prevede sostanziali differenze).

L’offensiva di Angelucci e dell’ultradestra ha avuto la capacità di risvegliare dal letargo le opposizioni parlamentari. Incapaci di affrontare il “conflitto di interessi” di Berlusconi nei lunghi 30 anni di potere berlusconiano – che fosse al Governo o all’opposizione – negli ultimi giorni tutti gli esponenti del centro-sinistra hanno partecipato alle manifestazioni indette dai dipendenti Agi, in sciopero perché preoccupati della possibile cessione, che considerano una minaccia alla terzietà dell’agenzia e alla libertà di stampa.

Alcuni hanno segnalato la possibile deriva orbaniana, sottolineando come il processo di concentrazione mediatica in corso in Italia assomigli a quello già in essere in Ungheria: a Budapest uomini vicini al presidente sono arrivati a controllare circa il 90% dei media, con la creazione di una fondazione mediatica che raggruppa più o meno 500 tra siti informativi online, giornali locali, radio e canali televisivi e che fungono da megafono per la propaganda orbaniana.

La soluzione proposta da centrosinistra politico e progressismo mediatico – in gran parte proprietà del gruppo Gedi, controllato dalla famiglia Agnelli-Elkann – ricade nell’alveo della tradizionale impostazione liberale: l’eccessiva concentrazione produce distorsione dei mercati e va dunque evitata. Nel campo editoriale, la concentrazione mediatica può intaccare il pluralismo e dunque il diritto a una corretta informazione. Nel concreto della possibile vendita dell’agenzia Agi ad Angelucci, la proposta del centrosinistra è impedirla. Per ottenere lo scopo, esponenti del Pd hanno interessato anche le istituzioni europee, che si sono riservate la possibilità di pronunciarsi dopo lo studio accurato del dossier.

La soluzione di centrosinistra e progressisti, dunque, lascerebbe tutto così com’è. Il probema, però, è che la realtà che viviamo è quella sì di un pluralismo che si restringe sempre più sotto i colpi dell’ultradestra, ma che, a esser onesti, già oggi non funziona. Perché è, al massimo, un pluralismo tutto interno alle classi dominanti.

Significativa, ad esempio, è la cessione dello storico quotidiano Il Secolo XIX, che passerà dalle mani del gruppo Gedi a quelle di Mediterranean Shipping Company (Msc), colosso delle navi da crociera, di proprietà dell’italiano Aponte, ma con sede fuori dal Belpaese, per l’esattezza in Svizzera.
Sarà coincidenza, ma Il Secolo XIX è il quotidiano che da ben 138 anni pubblica a Genova, cioè nella città sede del principale porto italiano ed è sul punto di essere acquistato dalla più grande compagnia di navigazione al mondo. Immaginiamo il tutto avvenga all’insegna del pluralismo informativo.

Ciò che manca non è la possibilità per i grandi gruppi del potere economico e finanziario di acquistrare e conquistare potere mediatico; ciò che manca (fatte salve rare ed encomiabili eccezioni) è il punto di vista e la visione delle classi subalterne.

Affinché possano avere voce non basta dividere il latifondo mediatico in appezzamenti più piccoli ma pur sempre di proprietà di qualche grande gruppo. Servirebbe una riforma di sistema che, considerata la centralità del terreno della battaglia delle idee, permettesse finalmente alle classi popolari un’alternativa al tifo tra le diverse squadre del campionato mediatico del potere politico-economico.

Nel caso italiano occorre che la Rai non sia strumento degli interessi di questo o quel gruppo di potere, bensì espressione della pluralità delle posizioni che esistono nel corpo della società. Contemporaneamente, non basta un impianto normativo che formalmente garantisca il pluralismo informativo e la possibilità di iniziativa privata. Perché senza potere economico mettere in piedi un progetto comunicativo di portata nazionale, che sia un giornale, una radio o una Tv, è nei fatti impossibile. Acquistare una frequenza, utilizzare canali di distribuzione nazionali non è impresa da poco. Affinché sia diritto sostanziale occorre un ruolo attivo dello Stato nel finanziamento della costruzione di canali “comunitari”, che, cioè, siano fatti da e per le organizzazioni popolari la cui voce è oggi praticamente assente dal dibattito mediatico.

Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

Nella foto: frame del video di Giorgia Meloni a Porta a Porta, 4 aprile 2024