"La linea del silenzio" (Solferino editore) è il toccante "romanzo di formazione" dell'attivista e politico romano che durante l'infanzia scoprì di essere fratello di una brigatista e che sua sorella era stata carceriera di Moro. Oggi l'autore parla del suo libro a Rieti e il 17 a Genzano, poi a Napoli

Non basta il cuore, sono necessarie anche la forza e la lucidità per sostenere l’impatto emotivo provocato dal libro La linea del silenzio di Gianluca Peciola (Solferino edizione). Già presentato a Bologna,Milano,Palermo,Roma,Napoli, definito dal suo autore “romanzo di formazione”, questo testo dal titolo conradiano rievoca anni tempestosi della nostra Repubblica mentre in filigrana si svolgono rapporti affettivi personalissimi altrettanto coinvolgenti.Una famiglia, quella di Peciola, in cui la reverenza per il grande partito si mischia al buonsenso popolare e alla simpatia del carattere romano dei componenti, con i soprannomi che ricordano certi amatissimi film di Scola, la stessa onesta perseveranza, lo stesso humour.
Ma una rivelazione rompe l’atmosfera di racconto d’epoca: l’autore scopre all’età di dieci anni di essere il fratello di Laura Braghetti, componente della colonna romana delle Br, nel 1978 presente nel sequestro Moro, assieme a Moretti, Gallinari, Maccari alias ingegner Altobelli, nel covo di via Montalcino, l’unica ad opporsi alla condanna a morte del ministro, che a piazza Nicosia nel’79 irrompe nella sede della Dc e che 1980, sparò nell’omicidio del vicepresidente del Csm, Vittorio Bachelet.
Il segreto “traumatico” come dice l’autore, ne nasconde un altro: la madre, Franca, rivelandogli quella fraternità scomoda, ma amata, gli confida anche l’identità del suo vero padre, chiedendogli contemporaneamente di rispettare quella “linea del silenzio” cui tutta la famiglia si era attenuta, come una consegna.
«Il segreto per me più bruciante era quello su mio padre, per me atteso fino a quel momento e che rivelava in contemporanea una fraternità difficile», ci dice Gianluca Peciola, «mi sono sempre chiesto perché nessuno fino ad allora avesse voluto parlarne in famiglia». «Per Laura era diverso: avevamo una confidenza contenuta ma costante, quando c’era. Ma Laura c’era sempre più raramente, spariva per giorni e nessuno sapeva dove fosse».

Per un bambino nato intorno al 1970 fuori dal matrimonio, dal punto di vista dei diritti sociali, quelli erano anni difficili: la legge sul divorzio approvata nel ’74, la potestà maritale nel ’75, sull’uguaglianza dei coniugi, i figli nati fuori dal matrimonio erano illegittimi, secondo l’articolo 254, dare la legittimità sarà possibile molti anni dopo, nel 2012.
Giorgio Braghetti, padre legittimo di Laura e padre naturale di Gianluca, che tuttora porta il cognome della madre, era da lui conosciuto come zio Giorgio; zio acquisito in quanto la moglie Gina, madre di Laura, era la cugina di Franca. Gina muore presto e Giorgio, dopo un secondo matrimonio con un’altra donna (così dicono in famiglia), seguìto da una separazione, era rimasto solo. L’amore, all’interno della grande famiglia allargata, (il fantastico zio Angelo, grande lavoratore, fedele al partito, sua moglie, le due zie Gilda ed Ersilia) per quella donna onesta e lavoratrice, era sbocciato quasi naturalmente. Quando Gianluca aveva quattro anni, lo “zio Giorgio” morì.
Peciola scrive, una volta cresciuto, cominciava ad avere dei sospetti sulla sua origine, che c’era qualcosa che riguardava suo padre che non veniva detto. «Sì, mettevo insieme delle parole, delle frasi che non mi tornavano, spesso capitava che chiamassi papà mio zio Angelo. Annotavo su un quaderno impressioni e riflessioni». Era forse già l’inizio del libro?
«Forse. C’erano anche riflessioni sulla scuola, sulle scelte politiche, in quell’epoca erano importanti. Il libro l’ho iniziato molti anni fa, poi l’ho lasciato per lunghi periodi. Aspettavo il momento in cui maturasse dentro me il sentimento giusto per mettere in chiaro il rovello che mi portavo,. Mettere su carta mi ha aiutato a pensare, a cercare con più cura nella mia intimità”. Adesso, nella sua vita si svolgevano all’improvviso due vicende parallele: la ricerca di un padre assente e l’amore per una sorella travolta da ideali assolutistici, dalla folle idea che per cambiare la società si dovesse essere disposti a tutto.
«Due traumi», ripete Peciola, «legati tra loro, in una famiglia che mi ha dato molto, che mi spronava al rispetto degli altri, ma che non mi ha permesso di fare chiarezza sulle mie radici”. Il rapporto con Laura è sempre stato buono, prima più distante, quasi educazionale, poi affettivo nel vero senso del termine. Quello con mio padre mi è mancato molto, mi mancava quel senso di “fondazione”, malgrado la mia famiglia sia stata molto presente.

In un quartiere come era il Quarto Miglio, definito “ibrido” perché di tradizione popolare ma anche abitato da borghesi e piccolo borghesi, diventava difficile il rapporto con i vicini di casa, gli amici di zio Angelo fervente comunista, la disapprovazione di una comunità che si aiuta ma che è pronta al giudizio, l’imbarazzo nei giorni del rapimento, l’inizio della rottura con alcuni abitanti di quel territorio, la realtà che imponeva la scelta tra stare con il partito o con le Br, il suo rifiuto per quella violenza, l’autonomia di scelta nella sua vita politica, l’amore per le donne della sua famiglia allargata. E se non bastasse, quello che lui definisce «amore assoluto» per quella sorella che lo esortava a studiare, a scegliere un buon liceo, a comprendere che solo con la cultura si poteva battere il nemico e che continuerà come sorella maggiore. «Io sono cresciuto nel rapporto con lei», nonostante il carattere sporatico degli incontri, afferma Peciola, «e con me stesso ,nei colloqui avuti con lei dentro il carcere. Mi diceva di leggere Gramsci, ma anche Il giovane Holden di Salinger, si preoccupava che la mia preparazione fosse completa per affrontare la vita e il lavoro. Ma soprattutto mi parlava di mio padre.Mi raccontava di quanto ero stato amato da lui, cose che nessuno aveva saputo dirmi prima. Paradossalmente tutto quanto mi era mancato fuori da quelle mura, nella vita normale, lo acquistavo lì dentro, in quei dialoghi nel carcere».
Prima in quello di Voghera, poi in quello di Latina, di Roma, infine nei brevi incontri in casa quando, dopo il 1994, Laura si occupava delle condizioni degli altri detenuti, e aveva un permesso per uscire, tornando alla sera a Rebibbia. Nella casa sulla Laurentina, dove la famiglia si era trasferita, con la malinconia di chi si è reso conto di aver sbagliato, «sono qui a passeggio con te»,gli dice in quell’occasione la sorella, «prendiamo questo sole, il clima è tiepido, sopra ci aspettano per pranzare…» e continua «abbiamo tenuto Moro cinquanta giorni in uno spazio di neanche cinquanta metri quadri: lo Stato borghese pur nella sua crudeltà, è stato più generoso.. …» e poi «non si realizza nulla di buono se le premesse sono quelle che abbiamo creato con quei morti e la scia di dolori lunga chissà fino a quante generazioni».
Una testimonianza struggente e amarissima ad un fratello finalmente ri-conosciuto, libero dal silenzio nel quale era stato costretto, avviluppato dentro un mistero senza ragione. Una storia potente da romanzo russo, dove i sentimenti filiali e quelli legati alla fraternità si danno la mano continuamente nello svolgimento delle vicende. Una madre presente e silenziosa «vedova in ombra», dice lui, un padre, nato nel suo stesso giorno, stimato per la sua storia partigiana, testimoniata dai documenti Anpi, rimpianto, disapprovato per non essersi imposto nel suo ruolo prima di morire, e dopo, forse, irrazionalmente, per averlo “punito” morendo.
Per questo lei parla di romanzo di formazione ? Torniamo a chiedere a Peciola.
«Si, intendo dire non solo di formazione personale, la rielaborazione di sentimenti contrastanti, di identità negate, di distanze necessarie da prendere anche da chi amiamo, ma anche il riconoscimento della mia abilità di mettere insieme ricordi, memoria delle sensazioni, persino delle foto guardate tante volte, studiate, per cercare una ragione a quella distanza imposta. Per me questo libro rappresenta la chiusura di un cerchio, la ripresa di una figura fondamentale che mi è mancata, era una necessità “riparatoria”, la riparazione di un torto che sento di aver subito».
Ha dedicato il libro a sua figlia, come mai? «è stato un atto paterno, il bisogno di affermare la mia verità. Come dirle che questa è la mia storia e la nostra storia. Volevo sapesse chi era mio padre, chi era stato suo nonno. Una pacificazione con le mie, le nostre fragilità».

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Gianluca Peciola

 

 

 

 

In apertura Gianluca Peciola da bambino con il padre Giorgio Braghetti e sua madre Franca Peciola.