«Quella di oggi in Italia è la democrazia del ceto medio, di chi ha una stabilità sociale ed economica. È la democrazia del 50 per cento, cioè di quell’unica parte di cittadini che va a votare. Una democrazia spaccata». È una visione forte quella di Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica alla Columbia University, intervenuta al dibattito sul tema della mancata rappresentanza nella democrazia, insieme a Valentina Pazè, autrice del saggio I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi (Edizioni Gruppo Abele, 2024), presentato al Salone internazionale del libro di Torino.
Due voci che si sono alternate per delineare i tratti di un vero processo di regressione della democrazia rappresentativa messa in crisi, in prima battuta, da un’offerta politica inadeguata che si mischia con l’erosione del consenso. «Il voto è un potere che fa molto male perché le decisioni che ne scaturiscono porteranno a delle leggi e le leggi dobbiamo rispettarle tutti, che ci piacciano o meno, che votiamo o meno. E il potere è uno strumento che può far male e può far bene». Ma chi usa oggi questo strumento? «Chi ha una buona posizione sociale, come per esempio, chi è già ingranato nell’organizzazione del lavoro – spiega -. Se pensiamo invece ai più poveri, ai lavoratori precari, ai rider e a tutte le categorie più a disagio ci rendiamo conto che sono soli e isolati. Allo stesso tempo, secondo diversi studi, le organizzazioni sociali, come i sindacati, ma anche i quartieri o la Chiesa, un tempo punto di riferimento per queste persone, stanno decadendo. Il cittadino solo diventa quindi un’unità tra milioni, e ha la percezione di non avere nessun potere di cambiare le cose. Anche perché i partiti non dialogano con il singolo individuo, ma fanno riferimento a gruppi di interesse».
Alle ultime elezioni amministrative del 2021, l’80% di cittadini benestanti ha votato mentre di quelli poveri (non solo per un dato economico, ma anche per isolamento sociale) solo poco più del 25%. La flessione della partecipazione elettorale è la dimostrazione che la democrazia senza organizzazioni si rivela un bluff, sostiene Urbinati. «È il sociale che si organizza e si trasforma in voto. Non a caso alle conquiste importanti, come lo stesso suffragio universale – afferma – si è arrivati dopo lunghi decenni di azioni con i sindacati, le cooperative. Questo significa che i partiti non sono un male necessario, una sorta di disgrazia che ci è capitata. I partiti sono una necessità per la democrazia partecipata e rappresentativa di molti e non di pochi».
Se decadono i partiti, decade anche la democrazia e il nostro Paese, in questa fase, si sta muovendo su un crinale pericoloso perché non ci si identifica più nei partiti e, di contro, la politica non è capace di dare risposte alle persone che vivono in condizioni di vita difficile. Quelle persone che Valentina Pazè fa rientrare sotto la definizione di “non rappresentati”, che disertano il voto perché convinte dell’inutilità del gesto. «La politica nella forma della partecipazione non è più percepita come un veicolo di emancipazione sociale – spiega l’autrice -. Partecipare in democrazia significa riconoscersi nel soggetto collettivo. E allo stesso tempo assistiamo alla ritirata dei partiti dal loro compito rappresentativo». Nel saggio si riflette anche su altre categorie di chi non vota. Si può pensare, per esempio, a chi non ha accesso al voto, gli “esclusi di diritto” come le persone straniere. E tornando al binomio democrazia-rappresentanza, «si considera democratica – dice – la rappresentanza quando pensiamo, per esempio, a un Parlamento che effettivamente rispecchia le posizioni di tutta la cittadinanza, soprattutto se eletto con un sistema elettorale proporzionale».
Questo sistema si oppone, secondo la filosofia politica, alla democrazia maggioritaria, dove la rappresentanza delle parti viene sacrificata per trovare una maggioranza solida, con l’obiettivo di dare stabilità politica al governo. Un sistema fintamente democratico: «Una singola persona – prosegue l’autrice – non può mai rappresentarci tutti, anche se dice di farlo. Un singolo individuo può essere rappresentativo solo in senso simbolico, come quando Donald Trump dice me, the people ovvero “io, il popolo”. Siamo in una fase di crisi dei partiti e della politica, e tendiamo quindi ad andare verso forme di rappresentanza simbolica che di per sé non hanno nulla di democratico».
L’eventuale introduzione del premierato, oggi ancora sotto forma di disegno di legge costituzionale e approdato di recente in Senato, orienterebbe proprio al modello maggioritario di democrazia. La riforma Meloni prevede infatti l’attribuzione di maggiori poteri al presidente del Consiglio e l’introduzione della sua elezione diretta. «Il potere e la funzione del voto verrebbero completamente sviliti da questa riforma», dice da parte sua, e a chiare lettere, Nadia Urbinati. «Perderemmo la rappresentatività perché si vota solo per avere una maggioranza, e questo già purtroppo sta avvenendo con le nostre leggi elettorali malsane. L’opposizione non avrebbe alcun potere. Andrebbe in crisi il potere di garanzia del presidente della Repubblica – afferma Urbinati – che è rappresentativo di tutta la nazione perché non è eletto dai cittadini. Stiamo parlando di una demolizione sistemica della democrazia parlamentare».
Perché difendere la democrazia parlamentare? «La democrazia presidenziale o con un capo è esposta naturalmente al populismo e ai plebiscitarismi, insomma a forme autoritarie. Il collettivo parlamentare è importante perché rappresenta coloro che hanno votato. Nel sistema parlamentare il voto ha due poteri: il potere di formare una maggioranza, e il potere di farsi rappresentare in Parlamento. Con il premierato (che è una forma di esecutivo, autoritaria, di dispotismo eletto che andrebbe chiamato maggioritariato) il voto varrebbe solo per formare una maggioranza granitica che non consentirebbe all’opposizione di fare il proprio lavoro. Questo è un deprivare i cittadini di tanti poteri, della parola, dell’opposizione, del dissenso. Se facciamo fatica oggi ad avere una televisione italiana pluralista, figuriamoci dopo. Se dovesse andare in porto il premierato saremo sulla falsariga di modelli autoritari e poco flessibili».
Qualche spiraglio di speranza per ristabilire il dialogo tra società civile e politica Valentina Pazè lo intravede nelle esperienze in cui i cittadini tornano ad aggregarsi, con un avvertimento però: «È confortante la reazione recente degli studenti definiti per anni come apatici – afferma – ma bisogna combattere il mito del cittadino apolitico. Penso alla democrazia deliberativa e a certe sue interpretazioni e alla democrazia basata sul sorteggio. Esperimenti a livello cittadino per cui si colloca l’assemblea cittadina tramite sorteggio e si discute su varie tematiche. Una trentina di persone affiancati da un facilitatore e con la presenza di esperti che arrivano ad emettere qualche decreto. Sono novità che suscitano entusiasmo ma sono forme di fuga dalla politica verso una visione tecnocratica, razionalistica. Si assume che ci sia un’unica risposta corretta ai problemi. Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola del mito del cittadino comune bravo e onesto contro i politici cattivi. Intravedo uno spiraglio di speranza nelle forme di attivismo che si organizzano nella forma classica della partecipazione».
Anche Nadia Urbinati esterna il suo scetticismo su modalità che «possono rivelarsi utili ma non per sostituire o deresponsabilizzare chi deve prendere decisioni sulle leggi o in Parlamento, nelle regioni o nei comuni. Ci possono dare indicazioni utili su quello che si potrebbe fare. Avere funzioni ausiliarie ma non decisionali. Ad esempio potrebbero essere utilizzate dai partiti per capire qual è la percezione che c’è nella società su un determinato argomento».
Nella foto: Il governo presenta le riforme istituzionali alle opposizioni, 9 maggio 2023 (governo.it)