Oggi le donne possono votare, iscriversi all’università, scegliere liberamente quale percorso professionale intraprendere. Godono, almeno sulla carta, degli stessi diritti degli uomini. Se si guarda la realtà per quella che è, però, ci si accorge che le cose stanno diversamente. Le discriminazioni hanno cambiato forma, sono spesso meno evidenti rispetto al passato, ma esistono ancora e possono avere effetti devastanti. Un esempio è il gender gap, cioè il divario di genere, presente nelle aziende e nelle università. A parità di mansione e di anzianità lavorativa le donne guadagnano in media meno degli uomini; quando riescono a emergere, poi, devono fare i conti con il cosiddetto “soffitto di cristallo”, una sorta di barriera invisibile che impedisce loro di raggiungere con la stessa facilità della controparte maschile posizioni di potere e di prestigio.
In un articolo pubblicato nel 1993 sulla rivista Social Studies of Science, la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda” (da Matilda Joslyn Gage, autrice di un importante pamphlet femminista pubblicato nel 18702). L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate – da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong – le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Com’è facile intuire, l’applicazione di un doppio standard, ovvero la tendenza a trattare in maniera diversa uomini e donne che si trovano in situazioni simili, non riguarda solo l’ambito scientifico, ma è pressoché universale. E a farne le spese sono sempre le donne.
In molti libri scolastici per l’infanzia la rappresentazione femminile è ancora stereotipata e legata a una visione antiquata della società; l’uomo lavora, pensa e produce, mentre la donna è innanzitutto e soprattutto una mamma, accudisce la prole e si occupa delle faccende domestiche. Nei manuali di storia, scienze o filosofia le donne non sono contemplate, e se compaiono è solo all’interno di box e schede di approfondimento. Una sorta di riserva indiana.
A volte il sessismo è quasi invisibile, altre volte è palese e colpisce con violenza, ma c’è sempre. È onnipresente e pervasivo. Sul lavoro e dentro casa, nella vita privata e in quella pubblica, le donne non sono mai davvero al sicuro. In tutti i sensi. Il sessismo non alimenta solo stereotipi e pregiudizi, non riduce solo gli spazi di autonomia e libertà, ma trasforma anche il corpo femminile in un bersaglio costantemente preso di mira. Non esiste una donna che nel corso della propria vita non sia stata molestata almeno una volta; si va dalle battute sessiste mascherate da complimenti alle aggressioni fisiche vere e proprie, fino ad arrivare a stupri e femminicidi. Chi minimizza o giustifica battutine e commenti, accetta implicitamente un retroterra culturale fatto di violenza e sopraffazione. Non a caso si parla di rape culture, ovvero “cultura dello stupro”.
La cultura in cui ci troviamo a vivere è definita da tanti elementi, compreso il linguaggio. Sessismo e discriminazioni di genere possono essere veicolati anche dal modo in cui usiamo le parole. Nella lingua italiana,
per esempio, questo avviene attraverso l’uso del maschile sovraesteso. Per fare un esempio, quando durante una conferenza o un’assemblea ci si rivolge a tutti i presenti, anche se le persone che partecipano hanno al 99% un’identità non maschile, il messaggio che viene involontariamente veicolato è «se non sei un uomo conti di meno, e io con le mie parole posso renderti invisibile». Lo spazio linguistico è, come ogni altro ambito umano, dominato dal maschile. Prova ne è l’asimmetria linguistica in cui tante persone incorrono quando devono nominare professioni associate a potere o prestigio sociale. Sopra ho citato il caso delle “donne scienziate”. È un problema culturale. Oggi parole come ministra, sindaca e avvocata hanno iniziato a diffondersi, seppur a fatica, mentre altre – medica, architetta, ingegnera, magistrata, notaia – fanno ancora fatica a imporsi.
Sembra che la piena parità di genere sia un miraggio lontano. La discriminazione, però, è un prisma a molte facce. Il sistema in cui ci troviamo non esclude e opprime solo le donne, ma chiunque non faccia parte del gruppo dominante. Le caratteristiche necessarie per far parte di questo gruppo sono facilmente intuibili. Bisogna essere maschi, bianchi ed eterosessuali. La categoria umana meno svantaggiata, oggi come ieri, è sempre la stessa.
«Tutto molto interessante, ma di cosa parla questo libro?». Semplice, parla esattamente di questo, cioè di patriarcato e sessismo, rapporti di potere e intersezionalità. Non lo fa in maniera diretta, ma attraverso le storie di otto donne vissute tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri. Brevi biografie di scienziate che sono state anche attiviste, femministe, pacifiste, tutte in un certo senso queer e rivoluzionarie. Ribelli. Ciascuna a modo suo, ciascuna seguendo una traiettoria esistenziale unica e irripetibile. Persone diverse, diversissime tra loro, ma con in comune un tratto importante: il coraggio di sfidare lo status quo e di spendersi per una società più giusta, equa e aperta.
Da Sara Josephine Baker, in prima linea nella lotta per il rinnovamento della sanità pubblica, a Laura Conti, partigiana, medica e ambientalista. Da Sophia Jex-Blake, che condusse una battaglia per l’accesso delle donne agli studi universitari in medicina, a Kathleen Yardley Lonsdale, cristallografa e riformatrice carceraria. Da Evelyn Hooker, che si spese per la depatologizzazione dell’omosessualità, a Lynn Conway, informatica transgender licenziata dall’IBM per aver voluto essere sé stessa. Da Roger Arliner Young, zoologa afroamericana alle prese con il sessismo e il razzismo del suo tempo, a Lilli Schwenk Hornig, una delle pochissime donne coinvolte nel Progetto Manhattan, che si rivolse al presidente Truman per chiedergli di non far esplodere le bombe a Hiroshima e Nagasaki.
Ho scritto questo libro cercando di non dimenticarmi mai chi sono e al tempo stesso allontanandomi il più possibile da me stesso. Da una parte ho affrontato ciascuna storia senza far finta di avere un punto di vista neutrale sulle cose e sul mondo. Non sono un algoritmo o un chatbot basato sull’intelligenza artificiale; sono un essere umano, esattamente come le persone di cui racconto la storia. Ho un corpo, un passato, delle idee che si sono formate nel tempo e mi hanno spinto a scrivere il libro che avete tra le mani. In un certo senso, però, decidere di adottare una prospettiva transfemminista e intersezionale mi ha consentito anche di essere altro da me. Sono stato una donna nera della classe operaia di inizio Novecento, una obiettrice di coscienza quacchera, una donna transgender che cerca di gridare al mondo la sua identità, una ragazza dell’alta borghesia ottocentesca. Ho capito che nessuna storia è lineare, nessuna vita banale, nessuna conquista definitiva. Può sembrare assurdo, ma le vicissitudini di una donna vissuta centocinquanta anni fa possono dire molto di chi siamo noi adesso, come individui e come società.
Scrivere questo libro è stato come prendere la cartina del Mar Mediterraneo che avevo davanti agli occhi da sempre e guardarla da un’altra angolazione. Spero che per chi legge l’effetto possa essere lo stesso. Ruotiamo lo sguardo, tutte e tutti. Ruotiamo la mappa, ruotiamo il mare.
Il festival scienza e virgola
Simone Petralia presenta il libro Le ribelli (Scienza express) venerdì 17 maggio alla ottava edizione di Scienza e Virgola (Monfalcone, ISIS Buonarroti). Il Science and Media Festival è promosso dalla SISSA Trieste per la direzione artistica di Paolo Giordano e la direzione scientifica di Nico Pitrelli. “Diversità” è la parola chiave di questa edizione, che si apre giovedì 16 maggio con un dialogo fra Olivia Laing e Chiara Valerio intorno alla “libertà” attraverso la “scrittura”, condotto da Paolo Giordano. Il festival è in programma fino al 21 maggio a Trieste e in molte sedi del territorio: sei giorni di incontri, dialoghi, eventi esperienziali e un vastissimo focus dedicato all’editoria scientifica. Per l’occasione Olivia Laing in anteprima nazionale presenta il nuovo libro Il giardino contro il tempo (Il Saggiatore). Paolo Giordano sarà anche in dialogo con la psicoterapeuta Stefania Andreoli che racconta il nuovo saggio “Io, te, l’amore. Vivere le relazioni al tempo del narcisismo” e con la giornalista Cecilia Sala sui temi de “L’incendio”. Al festival i nuovi libri di Filippo La Porta – Giuseppe Mussardo e del docente della Sorbona Daniel Andler su AI, e ci sarà l’astrofisica di Harvard Lisa Randall, considerata l’erede di Stephen Hawking, intervistata dalla divulgatrice scientifica Barbara Gallavotti. Il programma su Scienzaevirgola.it