Il pacifismo degli studenti che manifestano in tante parti del mondo contro la violenza e la guerra rappresenta un movimento fondamentale per tutta la società, che va ascoltato e non represso
«In piene facoltà, egregio presidente, le scrivo la presente che spero leggerà. La cartolina qui mi dice terra terra di andare a far la guerra quest’altro lunedì. Ma io non sono qui, egregio presidente, per ammazzar la gente più o meno come me … Quand’ero in prigionia qualcuno mi ha rubato mia moglie e il mio passato, la mia migliore età. Domani mi alzerò e chiuderò la porta sulla stagione morta e mi incamminerò. Vivrò di carità sulle strade di Spagna di Francia e di Bretagna e a tutti griderò di non partire più e di non obbedire per andare a morire per non importa chi… E dica pure ai suoi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, io armi non ne ho». I lettori non più giovanissimi ricorderanno questa poesia di Boris Vian, scritta nel 1954 e pubblicata da Marcel Mouloudji, all’epoca famoso cantante franco-algerino, il 27 maggio di quello stesso anno, giorno della disfatta della Francia nella battaglia di Dien Bien Phu, che segnò la fine della guerra d’Indocina, mentre la stessa Francia stava per cominciare un’altra guerra, quella d’Algeria. Joan Baez fece diventare questa canzone l’inno contro la guerra in Vietnam, poi tanti artisti la cantarono in lingue diverse, qui da noi Ivano Fossati, Ornella Vanoni, Serge Reggiani, Luca Barbarossa. Era giovane quando morì Boris Vian, e vive ancora nel cuore dei giovani che lottano contro la guerra. Di certo qualcuno vorrebbe poter usare questo prologo per sostenere che non c’è niente di nuovo nell’aria, nella rivolta dei giovani che in tante parti del mondo occupano le università e manifestano contro la violenza dei genocidi: sì, genocidi, perché ogni guerra è a suo modo un genocidio, di volta in volta diverso, storicamente, politicamente, formalmente insomma, ma non nella sostanza. Chi attacca e uccide popolazioni civili, bambini, donne, è mosso dal pensiero unico della superiorità etnica. E gli stupri di guerra, che non mancano mai, sono dettati dalla stessa logica: anche così, nella violenza sessuale che è sfregio e annullamento dell’identità della donna, prima ancora che strategia di sostituzione etnica, la guerra mostra il suo volto disumano.

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