Il nuovo organismo, di cui fanno parte anche Leonardo Spa, Enel e alcune banche, ha l'obiettivo di raccogliere 50 milioni da stanziare per la scuola. Ma un intervento così pervasivo dei privati comporta un riassetto della cultura e del sapere per creare una mentalità diffusa e subalterna, incapace di dissenso

Quando negli anni Sessanta Ivan Illich proponeva una descolarizzazione della società, all’interno di una parabola che comprendeva la destrutturazione delle istituzioni totali, si muoveva in un orizzonte nel quale le funzioni da assegnare ai processi formativi erano ancora quelle di una società espansiva, legata ai consumi di massa. Scriveva a proposito: «Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali in richieste di beni di consumo prodotti da esperti, la povertà si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio piacimento».

Il 24 giugno scorso, a Milano è stata presentata la Fondazione per la scuola italiana, di cui fanno parte organismi potenti quali: Unicredit, Leonardo, Enel, Banco Bpm e Autostrade per l’Italia. L’obiettivo è quello di stanziare fondi privati, circa 50 milioni di euro, da investire nella scuola. Si tratta di una vera e propria agenzia preposta a «contribuire a supportare il sistema scolastico, rendendolo sempre più competitivo», come ha dichiarato esplicitamente il ministro Valditara.

Al cuore di questo modello privatistico, ovviamente troviamo, come recitano i vari protagonisti intervenuti nella pagina di presentazione ministeriale, «la promozione delle competenze, la strategica funzione del capitale umano e la valorizzazione delle eccellenze, quali elementi sempre più centrali in un mercato del lavoro che evolve rapidamente, anche su impulso delle nuove tecnologie». Alla luce di tali pronunciamenti programmatici appare evidente un salto di qualità notevole rispetto a quelle traiettorie che dagli anni 90 stanno trasfigurando le agenzie formative, raccordandole sempre più alle specificità dei modelli produttivi, in una logica di messa a valore del sapere, in quanto merce strategica del capitalismo cognitivo.

Non siamo più quindi in presenza di un assetto a tutti gli effetti “antropologico” che era definibile con il linguaggio di Illich nei termini di un processo in cui la valenza da assegnare all’apprendimento era quella di innervare una vocazione iniziatica alla società dei consumi, bensì siamo piombati in una dimensione che vede una piena compenetrazione delle dinamiche educative all’interno dei meccanismi di produzione della ricchezza. Ovviamente i profondi mutamenti che l’avvento del digitale ha apportato nel mercato, ha senz’altro definito il campo di intervento delle strategie aziendali, le quali privilegiano una produzione di conoscenze compatibili alle direttrici dei grossi comparti dell’industria dell’immaginario. Ci troviamo quindi in uno scenario molto differente da quello della seconda metà del secolo scorso, poiché, assumendo lo sguardo dell’autorevole sociologo Paolo Perulli, ai soggetti sociali classici, sono subentrate delle nuove elitè tecnocratiche ed autoreferenziali, che si raccordano ai divergenti settori della emergente intelligenza generale, quella manodopera creativa ed urbanizzata, cosmopolita e perfettamente integrata nei segmenti produttivi più elevati, ma priva di coscienza autonoma ed incapace di esercitare egemonia. Per contrasto invece, sempre più vaste fasce della popolazione sono scivolate nella condizione di neoplebi eterogenee, escluse dallo spazio del comando, ma mobilitate nella ricerca del consenso da quei settori della classe dirigente, che sofisticamente manipolano i linguaggi populisti della post verità in una logica sovranista ed identitario-securitaria.

In Italia il fenomeno emerge anche dagli esiti delle recenti elezioni, laddove il cosiddetto asse rosso, cioè quello tracciato dalle frecce rosse dell’alta velocità, attraverso le città principali, consegna la vittoria alle forze progressiste, mentre i luoghi della provincia si asserrano intorno al blocco delle destre.

Il documento della Fondazione per la scuola italiana però assume anche due altre valenze significative, poiché da un lato si riverbera sugli scenari inquietanti che si riverseranno sulla scuola pubblica alla luce dell’autonomia differenziata, laddove l’impossibilità di garantire i Lep, destrutturerà l’articolo 3 della Costituzione, cioè quel dispositivo centrale nel nostro assetto democratico, che impone di «rimuovere gli ostacoli…che impediscono il pieno sviluppo della persona». Anche perchè verrà a mancare una prospettiva collettiva unitaria di soggettivazione civile, un piano nazionale di costruzione egualitaria della cittadinanza. Ciò ridurrà sempre più l’azione del pubblico, ed esporrà ad un’atomizzazione della coesione sociale, in un’ottica di anomia individuale, in cui i soggetti più vulnerabili, cioè la maggioranza impoverita, soggiacerà ad un asservimento totale a quelle logiche prefigurate dal manifesto programmatico di Valditara e company, (tra l’altro colossi implicati nella produzione e vendita di ordigni bellici, nello sfruttamento di risorse fossili, nella riproposizione di sistemi di mobilità e di occupazione dei territori, altamente inquinanti) che prevede la compartimentazione dei percorsi formativi, con la misurazione dei traguardi raggiunti lungo tutto il processo, per una compatibilità alle esigenze gerarchizzante della loro messa a valore.

Dall’altro, come se non bastasse, l’intervento così pervasivo di attori economici, comporta anche un riassetto egemonico, che fa della cultura un luogo del disciplinamento, non solo rispetto alle linee di sviluppo del capitale, ma anche come momento di pressione ideologica necessaria a creare una mentalità diffusa e subalterna, incapace di strutturare, attraverso la costruzione di un pensiero critico, un dissenso ontologico al modello unico. Maurizio Ferraris parla infatti di ontologia della trasformazione digitale, citando non a caso il rapporto dialettico servo-padrone, in cui la novità è l’assenza di controllo del processo in atto. Ciò a maggior ragione esercita una sua problematica laddove la funzione del sapere si intreccia sempre più con le articolazioni espansive di quei particolari costrutti tecnologici, che sono le IA, le quali hanno bisogno proprio di una accurata riflessione sul senso da attribuire alla riproduzione del ragionamento razionale e più in generale alla complessità dei processi di apprendimento. Dibattito di cui si sente una totale latenza nel mondo della scuola, prono a disporsi all’assuefatta declinazione dei linguaggi tecnologici.

Antonio Gramsci, allora, sembra rispondere alle nostre smarrite inquietudini, con la sua riflessione, risalente a circa un secolo fa, quando affermava che «la cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri». Non vi è margine di ambiguità in queste parole, che propongono una direttrice emancipatoria del sapere, orizzontale, comune. La soggettivazione attiva non può prescindere dall’appropriazione personale di quei meccanismi che aiutano il dialogo formativo orientato per sua natura epistemica a sottrarre ciascuno alle precondizioni dello sfruttamento. È necessario ripartire da una rifondazione della conoscenza che rifletta l’istanza di fondo che minaccia la tenuta democratica delle nostre istituzioni.

“Insegnare che cos’è conoscere”, questo disponeva quasi come suo lascito testamentario Simone Weil: è da qui che bisogna ripartire in un grosso confronto pubblico sul senso da attribuire all’orizzonte politico pedagogico, che vogliamo perseguire, se davvero vogliamo dare seguito al mandato costituzionale. Respingendo con tutte le energie possibili questi scenari abitati da fantocci che nella guerra e nel dominio vedono il solo spiraglio perseguibile, per la propria inessenziale, quanto superficiale brama di sopravvivenza.

L’autore: Marco Cosentina è insegnante di scuola superiore a Reggio Emilia