Iniziava così un servizio di Tv7 del 1969: «Un discorso sul divorzio non può prescindere da un discorso sul matrimonio».
Oggi noi potremmo dire che un discorso sul matrimonio non può prescindere da un discorso sui sentimenti, sull’amore e sulla parità dei diritti tra i coniugi, anche se, tuttora, questa affermazione non è così scontata in tante parti del mondo e nel nostro Paese ha faticato ad affermarsi nella società civile, nella politica e all’interno degli stessi partiti politici.
In Italia, nel secondo dopoguerra, il valore dei sentimenti, dell’amore e della parità dei coniugi nell’ambito familiare modernamente inteso si fa strada lentamente nella mentalità comune e nella legislazione. Nonostante l’art. 29 della Carta costituzionale, non era molto cambiata la struttura gerarchica e patriarcale della famiglia. Era ancora vigente, nella legislazione familiare, lo ius in corpus, per cui in aggiunta all’obbligo di fedeltà vi era anche quello dell’assolvimento del debito coniugale. Per un cambiamento, si dovrà aspettare la legge sul divorzio del 1970 e la riforma del diritto di famiglia del ’75 che modifica sostanzialmente la legge del 1942 prevedendo la completa parità tra i coniugi, l’abolizione della dote, la comunione dei beni, la podestà genitoriale, l’uguaglianza tra i figli nati dentro e fuori dal matrimonio. E negli anni successivi si dovranno abolire o modificare anche le norme del codice penale che ne contrastavano la piena attuazione.
Anna Tonelli, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino, in vari suoi saggi ha affrontato il binomio politica – sentimenti come chiave di lettura nella ricostruzione della storia sociale e politica contemporanea. Afferma che amore, sessualità, matrimonio, famiglia, sono stati temi molto dibattuti nelle strutture interne dei partiti politici dando vita a norme comportamentali, consigli, divieti, provvedimenti disciplinari finalizzati ad estendere la loro influenza sulla vita privata dei militanti e dei cittadini. Tonelli ha focalizzato la sua ricerca sui maggiori partiti di massa del tempo: il partito comunista e quello democristiano. Lo ha fatto, ripercorrendo la morale democristiana attraverso l’attività dell’Azione cattolica e quella comunista mediante l’esame dei severi codici formulati dagli organismi istituzionali del Partito, dalle scuole di partito e dalla Direzione nazionale.
Il quadro che ne viene fuori è che nel dopoguerra, sul terreno della morale individuale si sono confrontati e spesso scontrati la cultura laica e quella cattolica «pronte a contendersi il primato politico, sociale e morale nella società. Si tratta di due visioni del mondo basate su ideologie, credenze, riti, tecniche dirette ad un fine esplicito: conquistare l’egemonia nella società». Per quel che attiene la morale socialista, Tonelli ritiene che la si possa rintracciare nell’impegno profuso in sostegno di una politica riformista tesa alla modernizzazione della mentalità e dei costumi, a partire dalla legge Merlin sulla chiusura delle “case di tolleranza”, fino alla legge del divorzio e relativo referendum. Nella battaglia per il divorzio i socialisti ebbero un ruolo centrale tra i fautori della legge nel promuovere iniziative e orientare in senso progressista la popolazione italiana e per ribadire l’identità laica dello stato moderno. ( A. Tonelli, Politica e amore. Storia dell’educazione ai sentimenti nell’Italia contemporanea, il Mulino, 2003).
Sulla questione dei sentimenti e sul piano della morale, la studiosa sostiene che i due maggiori partiti popolari, le cosiddette «due chiese cattolica e comunista», per quanto contrapposti sul piano ideologico e politico, convergono e non mostrano segni particolari di distinzione se non, a volte, per gli accenti più rigorosi e stringenti nelle disposizioni comuniste, che sfociano spesso in un severo moralismo. Per i cattolici, il peccato viene espiato con il pentimento nella confessione; per i comunisti, invece, la trasgressione assume la valenza di una deviazione dall’ideale politico, un tradimento della retta disciplina e un danno all’immagine del partito. Si trovano nei documenti comunisti affermazioni del tipo: «è consuetudine dei militanti comunisti nascondere i sentimenti… I dirigenti comunisti sono chiamati a temperare i propri sentimenti in pubblico, evitando atteggiamenti mondani e troppo esibizionisti. … Esibire il lato emotivo costituisce per il militante comunista la prova di poca affidabilità politica…..Qualora un sentimento, un amore, un’unione possano pubblicamente danneggiare il partito, si deve mettere nel conto la rinuncia o almeno il nascondimento dentro il privato del militante.». Il “privato”, afferma Tonelli, diventa quindi il nodo centrale: l’«ambito dove intervenire per costruire il modello del cittadino esemplare». (A. Tonelli, op.cit. e Gli irregolari. Amori comunisti al tempo della guerra fredda, Laterza, 2014).
Dalla ricostruzione storiografica di Tonelli in ambito democristiano, a nostro parere, sembra che emerga un progetto politico più oppressivo, in particolar modo nei confronti delle giovani donne, con il fine di mantenere il diritto di famiglia autoritario e patriarcale codificato dal regime fascista e perpetuare la loro sottomissione soffocandone ogni aspirazione di liberazione ed emancipazione.
Con la caduta del regime fascista, per il movimento cattolico si determina la possibilità di recuperare quell’antica egemonia culturale attraverso una campagna moralizzatrice che ha come missione principale la formazione della gioventù.
La Democrazia cristiana, pertanto, delega alle organizzazioni collegate il compito di diffondere veri e propri decaloghi dell’amore contenenti regole e divieti precisi e avvia un progetto “di moralizzazione”, il cui ambito comprenderà la famiglia e la sessualità, i comportamenti pubblici e privati, il tempo di lavoro e il tempo libero.
Espressioni del vocabolario cattolico come «educazione del cuore», «formazione dei sentimenti», «controllo dell’ordine morale» diventano parole chiave e si trovano nelle molteplici pubblicazioni utilizzate per educare e formare “il buon cristiano” alla vita sentimentale.
Viene fondata anche una scuola per i dirigenti dove si tengono corsi di meditazioni e lezioni per l’apprendimento dei principi fondamentali della morale cattolica e dei metodi per trasmetterli. I principali destinatari dell’educazione ai sentimenti sono le donne, in modo particolare le adolescenti, quelle che saranno le future spose e madri e che hanno il compito di mantenere l’unità e “la santità” della famiglia. Le stesse che dovranno essere persuase o obbligate ad attenersi ai ruoli loro assegnati nella famiglia patriarcale e agli stereotipi che esaltano, nel genere femminile, le virtù dell’obbedienza, della castità, della riservatezza.
Per contrastare l’emergente ondata di liberalizzazione degli stili di vita, in special modo quello della sfera sessuale, le organizzazioni giovanili cattoliche si mobilitano per infondere nella gioventù “forti e saldi caratteri cristiani”, che nelle giovani donne si palesa nel “buon carattere” una volta interiorizzati i «valori a loro attribuiti per natura e gerarchia sociale o sessuale: ovvero pudore, morigeratezza, purezza, obbedienza, virtù, coraggio, religiosità», affiancati nella vita di coppia alla «dolcezza, comprensione, sottomissione, senso del sacrificio, rinuncia, abnegazione, fedeltà». Dall’altra parte, c’è la definizione del “cattivo carattere” con l’elencazione dei difetti tra i quali quello di non sapersi “dominare”, di non saper dosare l’emotività in una vita “votata” all’equilibrio e alla moderazione. Verso le giovanissime si rivolgerà l’attenzione di mamme ed educatrici, di sacerdoti e insegnanti, impegnati a placare gli “squilibri” tipici di quell’età. Per “l’amore onesto” codificato, ci sono veri e propri manuali che si soffermano sulle diverse tappe della vita sentimentale, che partono dall’amicizia, proseguono nel fidanzamento e finiscono nel matrimonio: percorso e traguardo obbligati. (A. Tonelli, Politica e amore)
Tonelli nota, inoltre, che in ambito comunista, in quella che dovrebbe essere un’area più progressista, le norme di comportamento spesso sono più rigorose e intransigenti per le militanti comuniste, per quella loro “indole” all’eccessivo sentimentalismo che le «induce a perdere di vista l’obiettivo finale». L’esempio delle scuole di partito è in questa direzione illuminante. ( A. Tonelli, A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie -1944-1993, Laterza, 2017) .
In questo contesto devono muoversi le donne comuniste, spesso penalizzate più dei compagni maschi all’interno e all’esterno del partito. Ne troviamo molte che, discostatesi da queste rigide norme, ne hanno subito le conseguenze con l’allontanamento o esclusione da organi e incarichi dirigenziali o con l’espulsione dal partito.
Teresa Noce, militante comunista fin dal 1921, fu estromessa dalla Direzione «per non aver rispettato la disciplina del partito», nella spiacevole vicenda della separazione da Luigi Longo. Nel 1955 scrive un noto articolo su l’Unità dal titolo “Imparare a dire no”. Trent’anni dopo, una militante del Partito comunista italiano in una lettera inviata alla redazione del giornale, si interroga su quel “No”, chiedendosi se davvero si era costruita una società diversa, una famiglia diversa, una cultura diversa… e anche un Partito comunista diverso.
Rispondere a questo quesito non è certamente facile, possiamo però ricordare che lo stesso segretario del partito comunista Enrico Berlinguer, intervistato nel 1976 da Carla Ravaioli sulla “questione femminile”, ammette che il suo partito non ha fatto abbastanza per rinnovare la mentalità dei militanti, elettori e simpatizzanti per superare pregiudizi, concezioni retrive e comportamenti discriminatori molto radicati nel costume del Paese, e ancora tanto presenti anche tra le fila del movimento operaio nella vita sociale, nel privato, all’interno del partito.
La stessa Nilde Iotti, nel suo saluto alle donne della sinistra europea (che per la prima volta si incontrano in un convegno a Roma il 21 e 22 marzo del 1986) non può fare a meno di sottolineare che tuttora «il mondo della politica è ancora un mondo profondamente maschile e anche nei partiti di sinistra stenta ad affermarsi con sufficiente forza il punto di vista femminile, la presenza attiva, la funzione dirigente delle donne; permane ancora troppo spesso nei nostri partiti – io credo – la concezione secondo la quale occuparsi dei problemi delle donne non è “far politica”, ma significa trattare di una questione particolare… Io ho vissuto profondamente nella mia esperienza la difficoltà nel mio partito di essere riconosciuta come una persona che vuole fare politica a tutto campo, che elabora progetti politici di carattere generale e si propone come dirigente politico.». (Convegno organizzato dal gruppo comunista e apparentati al Parlamento europeo e dalla sezione nazionale femminile della direzione del Pci, in Archivio storico del Senato ).
Certamente possiamo sostenere senza tema di essere smentite, che le militanti comuniste insieme ai movimenti femminili e femministi hanno contribuito molto per affermare l’uguaglianza e la parità dei diritti delle donne e la tutela dei minori nella legislazione del nostro Paese. Si sono battute per eliminare le tante discriminazioni e disuguaglianze esistenti nel codice civile e penale tra uomini e donne e per rendere norme giuridiche quei principi ispiratori della nostra Carta costituzionale.
Per non andare troppo indietro nel tempo, le donne lo hanno fatto partecipando volontariamente alla Resistenza italiana “esigendo” a guerra finita il diritto a poter votare ed essere elette. In Costituente, contribuendo all’inserimento nella Carta costituzionale la pari dignità sociale e uguale diritti senza distinzione alcuna nella famiglia, nel lavoro, nella società, affiancando al riconoscimento di questi diritti anche il compito della Repubblica di rimuoverne gli ostacoli che ne impediscono la concreta realizzazione, (che troviamo nel secondo comma dell’art. 3). Fu la comunista Teresa Mattei, una delle 21 madri costituenti, a proporre l’aggiunta di quel “di fatto” nel secondo comma. Ripercorriamo il suo intervento per sottolineare la grande consapevolezza che aveva della condizione femminile e la lungimiranza nel tracciarne gli ostacoli e l’impervio cammino.
Teresa Mattei, la più giovane tra gli eletti, fa presente agli onorevoli colleghi che non era sufficiente affermare il solo riconoscimento della parità e uguaglianza dei diritti: « è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo … un approdo. …». Sottolinea che non bastava: «Le donne desiderano qualcosa di più, qualche cosa di più esplicito e concreto che le aiuti a muovere i primi passi verso la parità di fatto, in ogni sfera, economica, politica e sociale della vita nazionale». Mattei fa presente che «secoli e secoli di arretratezza, di oscurantismo, di superstizione, di tradizione reazionaria, pesano sulle spalle delle lavoratrici italiane; se la Repubblica vuole che più agevolmente e prestamente queste donne collaborino – nella pienezza delle proprie facoltà e nel completo sviluppo delle proprie possibilità – alla costruzione di una società nuova e più giusta, è suo compito far sì che tutti gli ostacoli siano rimossi dal loro cammino, e che esse trovino al massimo facilitata e aperta almeno la via solenne del diritto». La giovane deputata chiede che «nessuna ambiguità sussista, in nessun articolo e in nessuna parola della Carta costituzionale che sia facile appiglio a chi volesse ancora impedire e frenare alle donne questo cammino liberatore». Sottolinea che purtroppo è «ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato l’apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale. Occorre che questo ostacolo sia superato». Teresa Mattei ci tiene a ribadire che «l ‘art. 7 (diventato poi 3 nella stesura definitiva) aiuta ma deve essere accompagnato da una profonda modificazione della mentalità corrente, in ogni sfera, in ogni campo della vita italiana e che le donne «molto ancora avranno da lottare per rimuovere e superare gli ostacoli creati dal costume, dalla tradizione, dalla mentalità corrente nel nostro Paese».
Ostacolo che Teresa Mattei si troverà a dover affrontare quando diviene «scomoda» al suo stesso partito per essersi rifiutata di adeguare la propria vita di donna agli ordini di un Pci moralista e bigotto. Nell’inverno del 1947 rimane incinta mentre ha una relazione con un uomo sposato e Togliatti «aveva deciso che l’impudente doveva abortire (e non fu la sola donna a cui impose quella scelta)». Teresa reagisce piccata: «le ragazze madri in Parlamento non sono rappresentate, dunque le rappresento io». La situazione fu poi regolarizzata all’estero con un espediente, ma Teresa mal sopportò quella ingerenza nella sua vita privata. Prima ancora, «la maledetta anarchica» (come la chiamava Togliatti) si attenne alla decisione del partito ma non accettò passivamente l’imposizione del voto a favore dell’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione». Nel 1955, sarà espulsa dal partito per aver denunciato lo stalinismo e criticato la politica togliattiana. (Enciclopedia delle donne.it. Biografie).
Anche Nilde Iotti, a causa della rigida morale comunista e per la diffidenza di molti compagni, subisce l’ostracismo interno al partito per la sua relazione con il segretario Palmiro Togliatti, sposato con Rita Montagnana.
È stata la prima presidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana. Fin dall’inizio della sua attività politica nelle fila del Partito comunista italiano e nell’Unione donne italiane di cui è stata per molto tempo dirigente, mette al centro della sua azione politica la “questione femminile” e l’emancipazione delle donne. Il suo ininterrotto percorso parlamentare sarà segnato dalla volontà di adeguare la legislazione italiana ai principi costituzionali.
Entra a far parte, insieme a Teresa Noce, Maria Federici, Tina Merlin e poi Angela Gotelli, della “Commissione dei 75” dove sono definiti i principi fondamentali della nuova Repubblica. A lei, per i comunisti e a Camillo Corsanego (suo professore di università) per i democristiani è affidata la relazione sulla famiglia.
La sua relazione è improntata al riconoscimento e al compito che la famiglia deve assolvere nel nuovo contesto democratico che, a suo avviso, necessita di «un’opera di svecchiamento e rinnovamento democratico conforme allo spirito che deve ispirare la nuova Costituzione e tutta la vita italiana del nuovo regime repubblicano» per liberarla da una «fisionomia che si può definire per certi aspetti antidemocratica». Fisionomia all’interno della quale ha prevalso più la situazione di difficoltà e interesse economico che «la naturale aspirazione umana unita all’impulso del sentimento», che priva l’istituto familiare del carattere di «unione liberamente consentita» soprattutto per la donna in stato di arretratezza e inferiorità economica. Per lei, la Carta costituzionale deve affermare il diritto dei singoli in quanto membri di una famiglia superando la vecchia legislazione e il vecchio costume del Paese e deve fare in modo che soprattutto la donna possa emanciparsi in tutti i campi della vita sociale, al fine di non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina acquisita con il diritto al voto. La nascente Carta costituzionale, afferma Nilde Iotti, deve avviare le auspicate trasformazioni del costume, deve essere guida «binario su cui si muoverà la corrispondente legislazione civile». Propone, nell’intento di rafforzare e rinnovare l’istituto della famiglia, cinque principi ispiratori, che saranno alla base della riforma del diritto di famiglia di là da venire.
In questa occasione, Nilde Iotti inserisce tra le motivazioni dell’unione familiare l’importanza dei “sentimenti”, in contrapposizione all’interesse economico o di «accasamento» e il concetto di «unione liberamente consentita». Molte delle sue proposte, benché con alcune revisioni dovute ai compromessi tra le forze politiche, trovano accesso nel testo della Costituzione.
Fu contraria all’inserimento nella Carta della indissolubilità del matrimonio, nel qual caso non ci sarebbe stata possibilità alcuna in futuro di legiferare in merito al divorzio.
Attenta osservatrice della condizione femminile e giovanile, Nilde Iotti intercetta la sofferenza e il desiderio di cambiamento delle donne, la loro aspirazione alla libertà, l’insofferenza verso la famiglia patriarcale e autoritaria che si va delineando nel nostro Paese nei decenni successivi alla fine della guerra e cercherà di rispondere a quelle istanze di disagio provenienti dalla società con la “politica delle riforme” privilegiando il dialogo alla contrapposizione con le altre forze politiche. La soggettività femminile, la presa di coscienza di sé e l’affermazione del proprio valore, anche per la sua esperienza personale, sono altri temi a lei cari, e ne fanno in un certo verso – come sostiene la storica Fiamma Lussana – una anticipatrice delle rivendicazioni del movimento femminista.
Nel 1962, nell’intervento alla III Conferenza nazionale delle donne comuniste, Nilde Iotti pone l’attenzione sui grandi mutamenti avvenuti nella società italiana e nella realtà femminile con l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Descrive un Nord dell’Italia e centri urbani diventati poli di attrazione «che proiettano l’immagine di una donna nuova, che lavora e guadagna, ed è perciò più libera e indipendente». Un’immagine che si propaga nel resto del Paese e influenza le altre donne, che rende loro insopportabile la vecchia situazione e le spinge a desiderare una vita «diversa», a superare la «servile» condizione che per secoli le ha mantenute oppresse. Nilde Iotti si sofferma anche sulla questione dell’istituzione familiare in crisi e, rivolgendosi alla controparte democristiana, risponde che è un certo tipo di famiglia ad essere in crisi, quella vecchia: la famiglia gerarchica, autoritaria, basata sull’autorità del capo di casa, sull’obbedienza della moglie e dei figli. Sostiene che questo modello nel mondo moderno non regge più, anzi è in netto contrasto è sorpassato e anacronistico. Per lei, «è assurdo negare alle donne uguale parità e dignità con il marito, è assurdo – ed oserei dire disumano – negare alla donna l’esercizio insieme al marito della patria podestà sui figli. È assurdo prevedere che in caso di adulterio la donna paghi questo adulterio addirittura con il carcere.». Lamenta che i cattolici, in ogni occasione e molto spesso a sproposito li accusano di voler distruggere la famiglia. Lei rivendica, invece, la validità della loro concezione di famiglia che, secondo l’affermazione gramsciana è: «centro morale basato sull’uguaglianza di due individui, sulla libertà della scelta, sulla parità». Ed è in questo contesto che inserisce la “questione del divorzio” sulla quale «ancora una volta si è accesa nei nostri confronti la polemica delle dirigenti cattoliche» alle quali risponde che: «piaccia o no il matrimonio indissolubile è in crisi, è in crisi aperta». Lo dimostrano in maniera eloquente i numeri delle separazioni legali, delle coppie illegali e dei gravissimi casi presenti in Italia. Non si possono chiudere gli occhi – sottolinea – e la questione, a suo parere, dovrebbe essere affrontata non tanto dai partiti politici ma quanto dal governo italiano. Conclude il suo intervento ponendo la questione della presenza delle donne all’interno del partito e, nello specifico, la politica del partito sull’emancipazione femminile. (Nilde Iotti, Nel movimento e nel partito. Antologia di scritti e discorsi)
Nella IV Conferenza delle donne comuniste del 1965, Nilde Iotti riprende il tema della famiglia, del ruolo delle donne al suo interno e nella società ma in una situazione completamente diversa, in una Italia investita da una crisi profonda che tocca tutte le strutture della società, con ormai il “miracolo economico” alle spalle. Nel suo intervento analizza le cause della crisi e illustra un disegno di trasformazione della società che non può non comprendere la funzione della famiglia e il ruolo dei suoi componenti. Sostiene che ormai non sia più accettabile «considerare la famiglia come “il lavoro” predestinato per metà del genere umano». Per lei, il senso vero della famiglia sono i sentimenti e la libera scelta che deve essere alla sua origine e accompagnarne l’intera esistenza. Afferma che debba esserci uno stretto rapporto fra società e famiglia e che occorre trasformarle insieme «per rispondere ai problemi dell’uomo moderno e alle sue esigenze di vedere affermati i suoi sentimenti di libertà, di uguaglianza, di solidarietà.». Evidenzia l’enorme divario tra la realtà della società e la legislazione familiare vigente, tra le più arretrate e conservatrici, e il fatto che dopo quasi vent’anni dalla conquista della Costituzione repubblicana, poco o nulla sia stato fatto per adeguarla allo spirito moderno. Per la prima volta, da dirigente del partito, parla di necessità della riforma del diritto di famiglia e di divorzio, della possibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale qualora le condizioni di convivenza siano rese impossibili nella consapevolezza «di toccare un punto di grande delicatezza per la presenza in Italia di un forte movimento cattolico, del centro della Chiesa cattolica, per il valore che questa questione assume nei rapporti stessi fra lo Stato italiano e la Chiesa e nei rapporti dei partiti col partito della Dc.» Ricorda che l’assenza della possibilità di scioglimento del matrimonio è un anacronismo tutto italiano nel mondo moderno.(Nilde Iotti, cit.)
Pochi anni dopo, insieme alle altre dirigenti comuniste, spingerà «un partito riluttante – per conservatorismo come per timore di uno scontro con i cattolici – a impegnarsi nel 1970 nella battaglia parlamentare per la legge, e nel 1974 nella campagna per il “no” al referendum abrogativo … È Nilde Iotti che nel corridoio di Botteghe oscure Enrico Berlinguer ringrazierà all’indomani del 12 maggio del 1974 regalandole uno dei suoi rari e fulminei sorrisi, con il commento: “Hai vinto”» (M.S. Palieri, “La regina rossa. Nilde Iotti” in Donne della Repubblica, il Mulino, 2016).
Sarà protagonista indiscussa della riforma del diritto di famiglia, legge approvata l’anno dopo dal Parlamento italiano, intervenendo con una organica riscrittura di quella vigente codificata dal fascismo nel 1942, da lei definita «antidemocratica», «anacronistica» e non corrispondente ai principi costituzionali….( questo saggio continua nel libro La battaglia sul divorzio, dalla Costituente al referendum, edito da Left)
L’incontro: Il 27 giugno alle 17,30 Enrico Berlinguer e la questione femminile: dall’emancipazione alla politica della differenza, negli spazi dell’associazione culturale Berlinguer in viale Oppio, 24 a Roma. Intervengono Luciana Castellina, Livia Turco, Vittoria Tola Giulia Rodano, Letizia Paolozzi, Franca Chiaromonte, Cecilia D’Elia, Gloria Buffo, Fulvia Bamdoli, Grazia Ardito Roberta Agostini. Presenta Pasqualina Napoletano, moderano Simona Maggiorelli di Left e la redazione de L’urlo di Teresa