Vietato dire sindaca e rettrice. La Lega vuole imporre il machismo linguistico, per legge

«Io voglio essere libero di continuare a chiamare sindaco anche le sindache donne, voglio essere libero di chiamare “il presidente” anche la presidente». Ogni volta che qualcuno da destra spreca fiato, inchiostro e comunicati stampa per ribadire questo squinternato concetto alcuni sorridono e alcuni si preoccupano.

Quelli che sorridono ci spiegano con un certo snobismo che non sono certo questi i problemi che preoccupano gli italiani. Solitamente questi sorridono anche di quelli che si preoccupano ritenendoli allarmisti o comunque esagerati. 

Nei giorni scorsi il senatore leghista Manfredi Potente ha presentato il suo disegno di legge dal titolo “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere” che vieta “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato”. C’è anche la multa: fino 5 mila euro. 

Il ddl molto probabilmente non diventerà mai legge ma contiene almeno due aspetti preoccupanti. C’è l’ignoranza di chi non sa che i femminili esistono dai tempi antichi – la sociolinguistica Vera Gheno si sgola da tempo per ricordarlo (lo testimoniano i suoi libri pubblicati da Einaudi come Grammanti e Potere alle parole)- e c’è la pericolosa idea di legiferare sulla lingua, segno particolare di ogni dittatura. Volendo ben vedere c’è anche la terza più significativa caratteristica: per libertà qualcuno intende il diritto di vietare agli altri ciò che non si condivide o ciò di cui non si è all’altezza. 

Buon lunedì.