L’Italia è o non è un Paese in grado di provvedere a sé medesimo? Il suo governo è o non è in grado di tenere le redini dell’economia e dello Stato sociale?

Risuona l’amletico interrogativo vergato da William Shakespeare all’inizio del Seicento nella sua più famosa tragedia.
La citazione, apparentemente banale, è però sempre la più sintetica definizione della condizione esistenziale umana. Vale per ognuno di noi individualmente. Ma anche, in senso lato, per le nostre aggregazioni, inclusi gli Stati.
Insomma, l’Italia è o non è un Paese in grado di provvedere a sé medesimo? Il suo governo – quale che sia – è o non è in grado di tenere le redini dell’economia e dello Stato sociale?
Il debutto di settembre ci presenta un Paese e il suo governo impegolati nella difficile elaborazione di un Bilancio pubblico le cui novità strutturali abbiamo messo in evidenza su queste colonne anche la scorsa settimana.
L’Italia è ancora o non è in grado di essere un grande un Paese industriale, capace di crescere e trainare un incremento adeguato del potere d’acquisto dei lavoratori attivi, dei pensionati e delle famiglie in generale? Le previsioni Istat sul Pil non sono certo eccellenti: l’1% per quest’anno, l’1,1% nel 2025. Sì, gli indicatori sull’occupazione sono apparentemente incoraggianti, con i record di lavoratori attivi – in luglio 24 milioni – che si succedono da alcuni mesi. Ma dentro questo incremento ci sono aspetti che vanno considerati con attenzione: la crescita degli occupati di luglio riguarda interamente il ritorno all’occupazione autonoma (+75mila, +250mila nell’ultimo anno).

Contemporaneamente, torna a salire il numero degli inattivi (+73mila). E gli inattivi sono in prevalenza donne e giovani under 35. Quindi se i lavoratori maturi (uomini in particolare) sono i protagonisti della crescita dei rapporti a tempo indeterminato, i giovani restano fermi sulla porta d’ingresso dell’universo dell’occupazione di qualità. Quella che genera, tra l’altro, il grosso della contribuzione previdenziale.

Contemporaneamente, i dati sulla Cassa integrazione in luglio, elaborati nel report mensile del nostro Centro studi di Lavoro&Welfare, ci dicono diverse cose. Con la richiesta di oltre 36 milioni e mezzo di ore nel mese, l’utilizzo di questo ammortizzatore sociale cresce del 4% rispetto a giugno e di quasi il 28% in confronto a luglio del 2023.

Nei primi sette mesi del 2024 si registra una crescita della CIG di oltre il 20% se rapportato allo stesso periodo del 2023. Incrementi che si verificano in particolare nella Cig ordinaria e straordinaria e che segnalano situazioni critiche per imprese e settori produttivi. Settori, va segnalato, tra i più importanti della nostra industria come il metalmeccanico e il metallurgico.
Il nostro tessuto produttivo, soprattutto nel manifatturiero, non se la vede bene anche per la stagnazione che attraversa l’intera economia dell’Eurozona.

Dunque, nel torrido clima di quest’estate si sono sciolte le facili promesse elettorali che sono state la piattaforma delle forze di maggioranza. Niente più bandierine e, per contro, aree critiche come la sanità pubblica, la previdenza e l’istruzione, sono messe seriamente a rischio dalla necessità di ridurre il deficit pubblico di un Paese che non cresce.

Non si scarichi la responsabilità sui celeberrimi “burocrati di Bruxelles”. Le condizioni di bilancio dipendono dallo stato dell’economia e dai patti sottoscritti da questo governo. Non solo da questo, ma senz’altro anche da questo.
È ora di decidere seriamente ciò che dobbiamo e intendiamo essere e non di abbandonarci al cupio dissolvi del facile vittimismo, caro alla destra, che conduce a un inaccettabile e amletico “non essere”.

L’autore:  Sindacalista e già ministro del lavoro Cesare Damiano è presidente di Lavoro & Welfare