Un viaggio a ritroso negli anni di piombo a Roma, tra l’assalto ad una sede del Msi e una morte sospetta di un militante di sinistra in carcere. Ne parla Valentina Mira, autrice di "Dalla stessa parte mi troverai". Il 5 settembre con l'Anpi provinciale presentiamo il suo libro a Roma

Dalla stessa parte mi troverai (Sem edizioni), che fu presentato da Franco Di Mare al Premio Strega 2024, è un libro coraggioso. Prima di tutto perché esplora la storia di una vittima a lungo dimenticata: Mario Scrocca, militante di sinistra che a quasi dieci anni di distanza fu ingiustamente accusato dell’aggressione alla sede del Msi di Acca Larenzia del 1978 (a maggio scorso acquistata dalla omonima associazione con soldi della Fondazione An nel cui cda siede Arianna Meloni ndr). Poco dopo l’arresto Scrocca fu trovato impiccato in una cella anti-impiccagione a Regina Coeli.

È un libro coraggioso anche perché emozionante voce narrante dell’autrice coglie aspetti profondi della crisi in cui si annidano i germi della violenza e della sopraffazione, e i rischi che rendono fragili le libertà, nella vita delle persone come in quella dei Paesi e dei popoli. Con un’attenzione speciale per le donne.
Valentina Mira, che effetto ha fatto essere stata selezionata per lo Strega con un libro così diverso da quanto viene proposto dall’editoria mainstream?
Penso che mi avrebbe fatto effetto a prescindere dal tipo di libro, a essere sincera. Diciamo che la prima parte della mia vita è stata costellata di fallimenti e sfortune di vario genere, un precariato perenne e faticosissimo a fronte di un impegno gigante, in termini di studio e di lavoro: mi piace pensare che dovessi imparare delle lezioni importanti, e andare incontro con tutta l’umiltà e la gratitudine del mondo a questa nuova, insperata piccola gioia.
Mario Scrocca è stato una vittima “indiretta”. Eppure, di lui si sono dimenticati quasi tutti. Perché?
Credo che troppe poche persone si siano spese per ricordarlo, che troppo sia ricaduto sulle spalle di quella che all’epoca era una ragazza giovanissima (25 anni), con un bambino di 2 anni da crescere, all’improvviso, da sola. Dipende da tanti elementi: i tabù sul carcere e sulle persone che ci muoiono, il tabù sugli abusi in divisa, l’impianto martirologico che su Acca Larenzia ha messo paura a chiunque non parlasse di fascisti ma di antifascisti. Contribuì anche un pessimo giornalismo, che accompagnò la vicenda cercando di metterla a tacere fin dall’inizio. E poi c’è il dato umano. È proprio grazie a quanto Rossella è tenace se oggi parliamo di Mario.

La moglie Rossella Scarponi è oggi un’attivista impegnata contro gli abusi sui detenuti, un’urgenza sulla quale il tuo libro riporta l’attenzione
Assolutamente sì, perché il modo migliore per ricordare una persona morta in carcere in circostanze così sospette è lottare affinché non accada di nuovo. Nel libro parlo di sovraffollamento carcerario, della Corte europea dei diritti dell’uomo che per l’Italia parla di trattamento inumano e degradante. Di un’Italia che però se ne frega. Dall’inizio del 2024 ci sono stati già più di 60 suicidi in carcere, è chiaro che non può continuare così.
Oggi sono molti i libri che affrontano il neofascismo dal punto di vista saggistico, ma pochi quelli che usano la narrativa, anche se basata su storie vere come il tuo. Pensi che sia una modalità efficace per sensibilizzare il pubblico, soprattutto i giovani?
Penso che sia un bel tabù. Che in letteratura il neofascismo sia trattato troppo spesso in modo binario: o demonizzazione assoluta (che però non te li fa riconoscere quando te li trovi vicino), o la risposta a questa mostrificazione che troppo spesso strizza l’occhio a una fascinazione mortifera. A me interessa indagare due elementi diversi e, mi sembra, più realistici: la banalità del male che riguarda le persone manipolate da quel tipo di pensiero, e l’eccezionalità del male che riguarda chi quella manipolazione la agisce dai vertici. Mi chiedi se sia efficace: non pensavo così tanto da farli reagire in modo violento, quindi probabilmente sì.
Fra i tuoi libri, X e Dalla stessa parte mi troverai, pur diversi, c’è il filo conduttore della tua scrittura, messa “a disposizione” della collettività. Qual è per te il senso dello scrivere?
Penso che ognuno abbia il diritto di trovare il proprio senso: la scrittura è un atto di libertà. Nel caso della mia, ha a che fare con un processo di liberazione; se la libertà non ti è data alla nascita, chiamare le cose col loro nome e rimettere le responsabilità al loro posto è qualcosa di magico. La scrittura questo lo permette, ed è uno dei tanti motivi per cui la amo.
C’è anche un’attenzione al tema dell’identità e della libertà delle donne, perché non accettino situazioni di sottomissione, un voler far tesoro della tua esperienza e metterla a frutto delle altre.
L’identità non è un tema che mi sta a cuore, anzi lo trovo piuttosto di destra. Si è parlato negli ultimi anni di identitary politics: ecco, questo a me non interessa, sono più vicina al femminismo intersezionale, che vede tutte le lotte legate tra loro. Invece sulla libertà, e ancor di più sulla liberazione, scrivo da diversi anni. L’intento che ho non è mai insegnare. Nell’assenza quasi assoluta di momenti rilevanti di autocritica maschile mi sembra comunque utile il lavoro di chi descrive dei pattern che si ripetono con poche variabili: la mia speranza è che, intanto, si riesca a scappare in tempo da certe relazioni. Non ti nego che inizia a infastidirmi l’incapacità maschile, anche in letteratura, di mettere in discussione il proprio agire e certi stereotipi. Mi pare che ci sia perfino chi ci lucra sopra, scrivendo libri che servono solo a dire “sono fatto male perché mio padre è fatto male” ma non a spezzare certi cicli mortiferi, e prendendosi applausi, come se fosse un approfondito lavoro antisessista. Diverso è con la saggistica e con qualche prodotto seriale. Lì qualcosa negli anni si è mosso, non solo in Italia. Una serie ben fatta sul rapporto padre-figlio, sulla mascolinità tossica e soprattutto su come la si spezza, è Eric, su Netflix. L’ho trovata molto bella.
Quali sono gli autori e le autrici che più ami e hanno influenzato il tuo stile, le tue voci narranti?
Uh, domanda difficile. Leggo un sacco, per cui scegliere è complicatissimo. Posso dirti i preferiti di ogni età, non l’ho mai fatto ma mi sa che è l’unico modo di dare una risposta onesta. Nell’infanzia ho amato Roald Dahl, J.K. Rowling (scoprirla transfobica mi ha spezzato il cuore) e trovavo esilarante Roddy Doyle. Volevo bene ai fumetti delle W.I.T.C.H., e conservo ancora uno scambio di lettere di quando avevo dodici anni, con Angelo Petrosino. Mi ha cambiato la vita rispondendo alla domanda su come si diventi scrittori o scrittrici: “È una strada laboriosa”, ha detto. Aveva ragione. Durante l’adolescenza ho amato Dostoevskij, Shakespeare, Sartre e De Beauvoir, in generale stavo in fissa per i classici. Oggi trovo Furore di Steinbeck una delle cose più belle mai scritte, e empatizzo facilmente con Martin Eden di London, che usa l’amore per questa donna che non se lo fila come stella polare, diventa uno scrittore e poi scopre che lei è meschina e che il mondo editoriale è spaventoso. Per un periodo ho amato molto Zerocalcare. E poi tutto quello che una penna femminista abbia partorito: Virginie Despentes, Valerie Solanas, Liv Stromquist, Vanessa Springora, Filo Sottile, Chanel Miller, un’infinità di meraviglia a cui sono approdata in età adulta, che mi dà una speranza che nient’altro sa darmi, facendomi sentire meno sola, trovando parole che neanche pensavo ci fossero.
Progetti per il futuro?
Nell’immediato futuro c’è un piccolo viaggio in un paesino del mio cuore, che per inciso è dove Hemingway scrisse Il vecchio e il mare, prima di ambientarlo a Cuba. È anche un piccolo posto dove mi portavano in vacanza i nonni (il nome non lo dirò mai, sennò si riempie di turisti): il piano è starci per un paio di settimane e scrivere come una matta, poi tornare e continuare a scrivere. Non dico ancora cosa, sono solo all’inizio. Però mi appassiona parecchio, e spero che leggerlo sarà bello come è per me, ora, scriverlo.

L’autore: Francesco Troccoli è scrittore e traduttore, autore di una trilogia di fantascienza (tra cui Ferro sette, Curcio, 2012) e per l’Asino d’oro del romanzo Mare in fiamme in cui ha affrontato il tema del passato coloniale dell’Italia fascista

Versione aggiornata dell’intervista è uscita sul numero di Left di luglio 2024

In foto Valentina Mira, courtesy Sem