Come si resiste al negazionismo di Milei? Il presidente smantella gli enti statali impegnati nella ricerca dei corpi delle vittime della dittatura di Videla e dei loro figli rubati dai militari. Ne parliamo con la direttrice di un luogo simbolo: il Museo
sitio de la memoria Esma
BUENOS AIRES - Non erano solo minacce elettorali per solleticare il ventre molle della società argentina. La volontà da parte del presidente Javier Milei e del suo governo insediato a gennaio di quest’anno, di interrompere il processo di ricostruzione della verità e di giustizia per le vittime della dittatura civico-militare degli anni Settanta, più volte manifestata a parole arrivando a negare addirittura i 30mila desaparecidos, si è materializzata a metà di agosto scorso quando un decreto presidenziale ha stabilito lo smantellamento della Commissione nazionale per il diritto all’identità (Conadi). Stiamo parlando di un ente pubblico che, attraverso la sua Unità investigativa speciale, indagava per restituire ai rispettivi familiari i corpi delle vittime non ancora ritrovati e i figli rubati a prigioniere incinte che dopo il parto furono fatte scomparire con i famigerati voli della morte.
Conadi dunque non ha solo contribuito in maniera determinante alle condanne dei repressori e alla ricerca che le Abuelas di Plaza de Mayo portano avanti da 47 anni in Sud America, in Europa e in Italia in particolare. È anche uno dei pilastri del Nunca más (Mai più, ndr), cioè della difesa della memoria di quanto accadde tra il 1976 e il 1983 in Argentina, insieme alle Abuelas, alle Madri di Plaza de Mayo e ad altre associazioni ed enti per i diritti umani. Tra questi spicca il Museo sitio de la memoria Esma (MsmE) che si trova a Buenos Aires all’interno della ex Scuola per ufficiali di marina dell’esercito (Esma), tristemente nota per essere stata diretta dall’ammiraglio Massera, numero due della giunta di Videla e iscritto alla loggia P2 di Licio Gelli, e il luogo da cui tra il 1976 e il 1978 scomparvero almeno 5mila persone. Per cercare di raccontare nel modo migliore cosa sta accadendo in Argentina abbiamo incontrato la direttrice del Museo, Mayki Gorosito e le abbiamo rivolto alcune domande.
Dottoressa Gorosito, sappiamo che i prigionieri del regime di Videla erano detenuti illegalmente e clandestinamente proprio nell’angusto sottotetto della palazzina in cui è stato realizzato il Museo, il cui contenuto si basa principalmente sulle testimonianze rese dai sopravvissuti durante i processi ai militari della giunta del 1985 e a quelli sulle violazioni dei diritti umani dal 2004 in poi. Motivo per cui è un punto di riferimento storico ma da un anno esatto è anche Patrimonio Unesco. Cosa rappresenta quindi non solo per gli argentini ma per l’intera umanità il Museo sitio de la memoria?
Queste mura sono state un centro di detenzione clandestina, tortura e sterminio. Il riconoscimento da parte dei Paesi membri dell’Unesco implica una maggiore visibilità a livello nazionale e internazionale di ciò che il sito museale simboleggia e testimonia. Vale a dire da un lato la denuncia del terrorismo di Stato basato sulla sparizione forzata di persone e dall’altro il valore del consenso sociale come mezzo per raggiungere la giustizia e perseguire il Nunca más. Ma essere Patrimonio Unesco implica anche una maggiore protezione di tutto questo, oltre quella già garantita dal fatto di godere dello status di prova giudiziaria, di monumento storico nazionale e di bene culturale del Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale, ndr). Difatti lo Stato argentino è obbligato a preservare e conservare non solo l’edificio e le sue istituzioni e professionalità, ma anche a fornire le risorse necessarie per la gestione e l’adempimento delle funzioni in conformità con il decreto di realizzazione del Museo.
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