Profondo conoscitore dell'opera di De Martino, l'antropologo presenta "Gli sciamani non ci salveranno" il 14 settembre al festival della filosofia a Modena

«Gli sciamani oggi sono all’ordine del giorno» osserva l’antropologo Stefano De Matteis nel suo nuovo libro in cui analizza la diffusione del fenomeno, Gli sciamani non ci salveranno (Eléuthera) che il 14 settembre viene presentato al festival della filosofia a Modena (ore 10, tenda di piazza XX settembre).
Docente di Antropologia culturale all’università di RomaTre, De Matteis si è a lungo occupato di rappresentazioni simboliche, pratiche performative, processi rituali ed ha pubblicato numerosi libri. È anche uno dei più profondi conoscitori dell’opera di Ernesto de Martino, di cui ha curato la pubblicazione di alcune opere.

L’antropologia è una scienza tutto sommato giovane che risale alla metà dell’Ottocento per lo studio delle diversità tra società, purtroppo non del tutto immune dagli obiettivi degli Stati coloniali di consolidare i loro poteri sui territori di altri continenti. È comunque grazie ai primi antropologi che sono state raccolte e sono arrivate sino a noi le memorie di società diverse da quelle del mondo occidentale.
Gli sciamani, definiti anche “uomini medicina” o “guaritori” sono stati studiati per la loro capacità di assumere il ruolo di tramite con entità soprannaturali, attraverso pratiche di meditazione o raggiungendo stati di estasi, sviluppando tecniche taumaturgiche e divinatorie.
Se la scienza medica (la scoperta dei batteri, delle origini delle infezioni, etc.) ha soppiantato tali tecniche, in un mondo postcoloniale flagellato dalle crisi del capitalismo, dalla globalizzazione, dalla pandemia, gli sciamani sembrano rappresentare percorsi alternativi ai quali aggrapparsi.
L’autore, durante l’intervista che gentilmente ci ha rilasciato, ha sottolineato la linea portante del libro e cioè come l’Occidente ha utilizzato, negato o cancellato il pensiero nativo. A tal fine, ha ricostruito le biografie di sciamani del passato come Alce Nero, uno dei superstiti del genocidio delle tribù indiane del Nord America e quella di Tamati Ranapiri, dei Maori australiani, le cui memorie sono state riepilogate nel libro dell’antropologo francese Marcel Mauss Saggio sul dono.

Oggi si definiscono sciamani personaggi come Jake Angeli, il cui nome forse è sconosciuto ai più ma non la sua immagine che divenne virale il 5 gennaio 2021, quando vestito di pelli, il viso dipinto e con un copricapo di corna animali, partecipò all’assalto di Capitol Hill, il tempio della democrazia americana e Davi Kopenawa, della tribù Yanomani del Brasile, che dopo aver lavorato come traduttore nelle istituzioni governative si è riappropriato delle tradizioni della sua tribù trasmessegli da un vecchio sciamano, diventando portavoce dei nativi per la denuncia dei disboscamenti e dello sfruttamento delle terre.
Il libro di Stefano De Matteis offre tanti spunti di riflessioni, dall’antropologia alla politica, e per approfondirli gli abbiamo sottoposto alcune domande.

Professor De Matteis quali sono le differenze tra Jake Angeli, attualmente nelle carceri statunitensi e Davi Kopenawa che dà voce alla propria tribù per denunciare lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia?

Enormi. Jake Angeli sarà ricordato come lo sciamano di un movimento politico che invade e occupa Capitol Hill, mentre Davi Kopenawa è uno sciamano riconosciuto che nella sua autobiografia racconta la sua iniziazione, ma anche lui diventa altro, perché a partire proprio dal libro La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, considerato una nuova bibbia per gli emergenti movimenti ecologici, assume il ruolo del difensore della sua terra e simbolo per tutti coloro che cercano di porre rimedio ai danni realizzati dall’uomo bianco nell’intero pianeta. Sì, è vero, entrambi sono accomunati dal termine sciamano, ma con declinazioni completamente diverse: il primo incarna una tendenza, non solo americana, a ibridare, mettere assieme esperienze e pratiche molto diverse tra loro, per costruire una spiritualità fai da te, molto interessante da studiare e che coinvolge derive “politiche” importanti che in America sposano il movimento QAnon. Kopenawa invece mostra un sapere tradizionale che si inscrive in una precisa costellazione culturale, che lo porta a difendere la sua terra e lo fa non per finalità individuali o campanilistiche, ma per la salvezza dell’intero pianeta, producendo, nello stesso tempo, una fondamentale critica dell’uomo bianco e, soprattutto, alla sua avidità incarnata e inculcata dal capitalismo. Si tratta di una posizione che si traduce in una critica di carattere fortemente politico, in quanto Kopenawa, come Tamati Ranapiri, mettono in campo ipotesi alternative al sistema attuale.

Dopo quasi ottanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sembriamo alle prese con una nuova catastrofe culturale, di cui si è occupato Ernesto de Martino. Lei pensa che l’antropologia, dopo di lui, possa essere in grado di dare risposte alle attuali crisi più di altre discipline alle prese con problemi come la cancel cultur, revisionismi, o il tentativo di riportare la violenza come tratto identificativo della natura umana?

Le parole di Ernesto de Martino ci indicano una strada che, con i necessari adattamenti e aggiornamenti, può essere ancora perseguita. Uno sguardo distaccato, l’analisi accurata dei processi sociali con la loro ricaduta storica, i nodi irrisolti, le invenzioni e le strategie degli attori. L’antropologia dovrebbe essere applicata fin dalle piccole cose, si dovrebbe insegnare ad accogliere la differenza e spiegare che la diversità è una grande risorsa. E questo anche rispetto al passato: non ha senso abbattere una statua, è molto più importante narrarla, spiegarla e discuterla e conoscerne il perché c’è e cosa ha rappresentato. L’antropologia insegna che non si nasce avidi, sfruttatori e violenti. Si nasce semplicemente uomini e donne in sistemi sociali che ci indicano come diventare e cosa essere. Ma abbiamo la possibilità di scegliere e di opporci a quei sistemi, e in molti casi di ribellarsi. Altrimenti ne diventiamo complici. E l’angelo della storia evocato da Benjamin ha sempre più orrore da quanto vede nel mondo.

Ernesto de Martino nel suo testo Furore, simbolo, valore usa le parole “sciamano” e “sciamanizzare” per definire Adolf Hitler e la sua attività nel suo delirio nazista di violenza. Qual era il suo pensiero verso la figura simbolico-religiosa dello sciamano?

Nella sua opera c’è una doppia interpretazione dello sciamanesimo: all’inizio, nel Mondo magico, De Martino si rifà allo sciamanesimo tradizionale elaborando una comparazione tra etnografie molto diverse tra loro che gli permette di declinare in modi diversi le tecniche incarnate dai singoli operatori. Questo gli favorisce anche riferimenti alla parapsicologia, alla telepatia e a pratiche anche occidentali di cui si è occupato e di cui si parla troppo poco. Per arrivare poi al secondo capitolo, “Il dramma storico del mondo magico”, in cui pone la questione dell’affermazione del Sé nella realtà storica, dando così forma a quella straordinaria formulazione della «presenza» dell’uomo nel mondo. Una prospettiva completamente diversa è quella del saggio raccolto in Furore simbolo valore, tra l’altro un testo di dieci anni precedente che rielabora e riscrive quasi completamente, in cui intreccia il bilancio della sua vita di studioso con i cambiamenti in atto. Dichiarando che lo stimolo agli studi etnologici non fu «la bramosia di lontane esperienze ataviche», ma l’esigenza di veder chiaro, di far luce sul rigurgito proprio di quelle esperienze nel costume della sua epoca. E da qui la necessità di capire l’uso strumentale del passato, dei simboli e, soprattutto, della forza che questi possono avere, anche irrazionalmente, su intere popolazioni. Da questa prospettiva basta pensare ai simboli e alla rifunzionalizzazione nefasta di concetti come quelli di razza, così come sono stati utilizzati non solo dal nazismo, ma anche dal fascismo che li ha fatti propri. Ma basta guardarsi intorno oggi, per vedere quanti altri dittatori sono ancora lì a «sciamanizzare» dentro e fuori l’Europa. E qui l’etnologia ha un ruolo fondamentale perché, come suggerisce de Martino alla fine del saggio citato, è solo l’incontro e il dialogo con l’ethnos che «saprà aiutare l’Occidente a ritornare su se stesso e a trasformare i suoi feticci in problemi».
Parole quanto mai necessarie anche per l’oggi.

L’autrice: Sonia Marzetti è storica e animatrice del Gruppo Storia

Nella foto: lo sciamano Davi Kopenawa (Fernando Frazão/Agência Brasil)