«Sebbene avesse anni 30 nel 1914, non ha prestato servizio militare nel nostro Paese durante il conflitto... Si è fatto una posizione che gli ha consentito in qualità di “pittore sedicente moderno” di guadagnare milioni e di acquisire la piena proprietà di un castello nei pressi di Gisors, ma ha continuato a coltivare idee estremiste pur orientandosi verso il comunismo». Così la polizia francese “schedava” e teneva d’occhio Picasso. E non si trattò di un solo episodio.
Con uno sguardo nuovo, attento alla storia sociale dell’arte, la mostra Picasso, lo straniero, fino al 2 febbraio a Milano, offre molti spunti inediti per rileggere l’opera del genio malagueño che per tutta la sua vita, nonostante la fama, visse da straniero in Francia, sempre sotto lo sguardo coercitivo della polizia francese e quello negante dell’accademia. Picasso tre volte outsider, perché spagnolo senza cittadinanza in Francia, perché artista di avanguardia, perché fondamentalmente anarchico e poi comunista. Ma che al contempo seppe fare del suo essere straniero una personale identità di ricerca.
Su questo ci dice molto la mostra in Palazzo Reale. Un luogo scelto non a caso poiché nel 1953 ospitò Guernica per volontà dello stesso Picasso come auspicio di pace duratura.
Curata da Annie Cohen-Solal e Cécile Debray, Picasso, lo straniero intreccia storia e arte e ci interroga riguardo al presente e alla xenofobia di un’Europa che respinge i migranti e di una Italia che nega anche la cittadinanza a molti giovani con background straniero, nati e cresciuti qui.
Ne abbiamo parlato con Annie Cohen Solal, autrice dell’appassionata e innovativa biografia Picasso, una vita da straniero (Marsilio) - 500 pagine che si leggono come un romanzo storico - e curatrice della mostra di Milano: una mostra davvero importante e che, pregiudizialmente, prima ancora che aprisse, è stata attaccata da destra su Libero proprio perché coglie nel segno riguardo al tema dell’arte, della relazione con l’altro e dei diritti umani. «Ho contestato quel servizio di Libero inviando loro una lettera. E mi fa piacere poter rispondere anche qui su Left perché io non posso concepire il mio lavoro senza un impegno politico», ci dice Annie Cohen Solal al telefono.
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