«Io ti racconto il Carnevale, la festa che finisce male / Le falsità di una città industriale. / Io ti racconto il sogno strano di inseguire con la mano / Un orizzonte sempre più lontano».
È Claudio Lolli. Siamo nel 1973. Poesia? No, sono i versi di una canzone. Ma davvero? Qual è la soglia, quale sarebbe il discrimine tra parole e frasi messe in musica, e quelle scolpite più semplicemente su pagina bianca?
Nell’Ulisse di Joyce il protagonista Bloom a un certo punto del libro ascolta, in un pub, alcune ballate popolari per voce a pianoforte. Il connubio di parole e melodia commuove i presenti e lui si chiede: «Parole. Musica. No, è quel che c’è dietro». Ma cosa c’è dietro? Cos’è che anima l’arte, che a sua volta anima il mondo?
«Io te racconto e si me senti nun lo so / Se te disturbo abbi pazienza ’n artro po’ / Che nun c’avemo mai creduto all’aldilà / Ma ’na canzone nun se sa mai fino a ’ndo po arivà». Parole, versi di Mirkoeilcane. Siamo nel 2023. Un cantautore, un poeta. Scrive questa canzone in cui si rievoca la scomparsa di un amico: una morte, tante morti. Il titolo è “Caro amico ti scrivo”, e si trova nell’album La musica contemporanea mi butta giù.
Nella strofa precedente, come nelle grandi poesie, in poche parole abbiamo tanto, troppo, la perdita, la speranza, la volontà: «Nun sai le vorte che so passato sotto casa tua / Su quer terazzo a Garbatella quanta compagnia / Nun sai le vorte che ho pensato ’mo lo chiamo’ / E poi piagnevo cor telefonino ’n mano».
Mirkoeilcane l’ho incontrato alla festa di Mediterranea, una Ong che si occupa di salvare i migranti in mare. Ha chiuso la sua breve performance sul palco con “Stiamo tutti bene”, canzone che presentò a Sanremo nel 2018. Parla dei migranti, di un sogno, di un incubo. E anche qui abbiamo tanto, l’ironia, la tragedia, la dolcezza: «Ma guarda te la jella proprio a me doveva capitare / Quattro giorni su sta barca, intorno ancora solo mare / Ma ti pare giusto / Uno va in vacanza per la prima volta / E quelli lì davanti son capaci di sbagliare rotta… / Ed io vorrei soltanto alzarmi e palleggiare, ah / Ma se soltanto sporgo anche di un centimetro il piede / Questo davanti si sveglia / E inizia a dire che ha sete / Io ho pure sete, fame, sonno / E mi fa male la schiena / Ma non c’è mica bisogno / Di fare tutta sta scena… / Tre giorni fa / Ne hanno buttati una ventina in mare / Mamma dice che volevano nuotare».
La poesia prende la realtà e la rende diversa, ma uguale. Ce la porge, la muta, però solo perché possiamo poi vederla meglio. Ma perché leggere al microscopio una canzone, si dirà? In anni non troppo lontani, un maestro del cantautorato italiano, Francesco Guccini, si chiedeva: «Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes!» L’effetto della sparata, certo, è comico, perché al gran teorico francese della letteratura e filosofo, esponente di spicco dello strutturalismo, si addicono le opere canoniche, i classici, i capolavori, mica la musica “leggera”! E invece no, da decenni in tante parti del mondo il cantautorato, la musica d’autore, ha con grande evidenza e forza preso un testimone prezioso, un vessillo che a volte la poesia, non certo per sua colpa, non è riuscita sempre a tenere alto. E per questo va guardato anche da vicino, come si guarda alla poesia.
Pensiamo alle polemiche sul Nobel dato a Bob Dylan, tra i poeti della storia del mondo uno dei più grandi. Non hanno fatto breccia nella realtà dei fatti. E perché? Perché la poesia vive e muore indipendentemente da noi. Vive di morte, e talvolta muore di vita. Come in un mare profondo, abissale.
Dylan stesso scriveva, nel 1976, alcuni versi memorabili che indicano, della letteratura intesa come arte di parole e musica, il senso, il mistero – “quel che c’è dietro” direbbe Joyce: «Il tuo alito è dolce, due gemme in cielo i tuoi occhi…/ Sei fedele alle stelle, non a me… / Scrutano il futuro, tua sorella e tua madre, come te / Leggere o scrivere tu non sai, nessun libro sul tuo scaffale / La tua voce è un’allodola, illimitato è il tuo piacere / Ma il tuo cuore è un oceano, misterioso e oscuro». Sono versi in cui leggiamo in controluce proprio il perché primordiale: perché scrivere poesia, perché fare arte, perché artefare?
I cantautori, poeti di oggi, hanno risposto in molti modi. Di recente Brunori Sas ha scritto ironicamente di «Canzoni che parlano d’amore / Perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è molto da cantare / Solamente una tristezza che è difficile toccare»; ma questo solo per poi cedere il passo alla motivazione vera che, tramite le canzoni, ci spinge a sentirci tutti coinvolti, a identificarci con la straniante altalena di suoni e parole di una ballata: «E invece no, tu vuoi canzoni emozionanti / Che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti / Canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / Canzoni belle da restarci male / Quelle canzoni da cantare a squarciagola / Come se cinquemila voci diventassero una sola».
Mirkoeilcane pone la stessa questione di Brunori in “Leggera”, un viaggio autobiografico per i sentieri che portano in chissà quale dove – un salto nel vuoto, la scelta controcorrente di scrivere canzoni contro la paura, poesie in grado di squarciare il velo di una musica contemporanea sempre più allergica alle vere domande: «non è facile convivere con questa idea / di aver sbagliato tutto / e ammettere a me stesso che se c’è una colpa / è solo colpa mia / che gioco a scrivere canzoni / con la penna, il foglio e la malinconia / ma questa è musica leggera / Leggera come un bugia / vuole canzoni da scordare / vuole parole da buttare via».
La magia delle canzoni è trasformare l’invisibile, il dimenticato, in incanto. Spesso anche le piccole questioni diventano grandi nell’arte. Le scomparse, i silenzi, le assenze di questa o quella persona, di questa o quell’idea, tramite la transustanziazione della parola poetico-musicale divengono altro, scenario e paesaggio di tutti, contesto familiare e bruciante.
Questioni private, ad esempio, come il rapporto dell’uomo con lo “spirituale”, erano dibattito pubblico già con De André («Non posso pensarti figlio di dio / Ma figlio dell’uomo / Fratello anche mio», da “!Laudate Hominem”, 1970) o con De Gregori («Gesù piccino picciò, Gesù Bambino / Fa che venga la guerra prima che si può…/ fa che si porti via la malamorte e la malattia / Fa che duri poco e che sia come un gioco», da “Gesù bambino”, 1979). Ora, nel suo dialogo speciale e ironico con il divino (geniale la partecipazione all’album di Giobbe Covatta), Mirkoeilcane dà del tu al Signore per bocca dello sdentato Giovanni, un vecchio che lo invoca facendoci sorridere, e anche riflettere sul presente, alla maniera di Phil Ochs: «Caro Gesù / dico fate qualcosa / io qui lascio due figli, mia moglie Teresa / e un nipote che dopodomani si sposa… io vi stimo Gesù / ma qua sotto è un casino / gente senza memoria che fa distinzione / se uno ha la pelle di un altro colore / quindi caro Gesù / credo sia necessario torniate a vedere / Però per carità non passate per mare / c’è un problema con i porti».
Anche Ochs aveva cantato del “falegname Gesù” («Jesus was a working man»ı) riprendendo una ballata del grande cantautore scozzese Ewan McColl e iscrivendosi sul solco di Woody Guthrie e del suo Gesù agitatore e organizzatore di poveri e lavoratori (vedi They Laid Jesus Christ in his Grave). Nei tre pezzi “dedicati” a Dio dell’album di Mirkoeilcane abbiamo la voce di un Gesù che chiede permesso al padre di donare all’uomo, col senno di poi, nuovi precetti per una nuova umanità: «Punto due: circa la religione / D’accordo sperare in un supervisore / un amico provvisto di super potere / un arbitro onesto clemente e imparziale / antidoto contro un nemico che trama / un idolo armato di scudo e di lama / ma almeno smettetela di litigare / per scegliere come si chiama».
Sono versi che ricordano obliquamente quelli del grande cantautore irlandese Damien Dempsey nella sua ballata anticoloniale e antibritannica, Colony: «Il loro Dio era Gesù Cristo e l’hanno fanno in nome suo / Perché la colpa cadesse su di lui… Con la bibbia in una mano e la spada nell’altra / sono venuti a depurare la mia terra dai gaeli, madri mie e padri miei, mie sorelle, miei fratelli».
Dietro al velo dei versi del cantautore e poeta romano Mirkoeilcane scorgiamo proprio questo, il delicato punto di incontro tra individuo e società, lo sfiorarsi di fragilità e forza – come nel ritratto di una giovane, nell’audace canzone In equilibrio : “La ragazza occhi scuri e attenti / Una foglia d’autunno poggiata sul cuore / Dice lei che è uno scudo sottile / Per non sentire dolore / Quelle gambe leggere leggere / Che hanno attutito anche l’urto peggiore / Che non si piegano al vento, all’invidia e agli sguardi / Di chi la vuole cambiare”.
Perché scrivere poesia è una domanda che non troverà mai risposte adeguate. Le poesie sono traduzioni di originali perduti, suggerisce Gabriele Frasca, e in quanto tali non fanno che riportare un’emozione. Ma poi la rendono, non solo nel senso di porgerla a parole: la ridanno indietro, la restituiscono. Perché i poeti questo fanno: ci rendono a parole, e ci rendono parole.
Eppure, se per scolastica ipotesi dovessimo decidere seriamente di cercare una risposta alla domanda di cui sopra (“Perché scrivere poesia?”), allora sì, l’unica replica soddisfacente forse sarebbe: si scrive perché si fa musica, perché siamo suono. Suono dunque sono; e se sono suono, allora non posso che parlare.
Ecco quel che fanno i poeti. Parlano al vento e del vento. Scrivono lettere, missive perdute, indirizzate al futuro, all’invisibile; perché poi, coi nostri occhi e coi nostri orecchi, quell’invisibile, quell’indicibile, quell’inudibile, noi potremo vederlo, sentirlo, toccarlo.
Siamo perché poesiamo.
Prossimi concerti:
26 ottobre: Bussola live, Teatro del parco, Mestre
6 novembre: Alexander Platz, Roma
L’autore: Enrico Terrinoni è scrittore, traduttore e romanziere
Le foto sono di Chiara Lucarelli italian Culture Through Film/ Photographing Rome Professor
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