Per riuscire a fermare questa pericolosa “deforma” e attuare la Costituzione, bisogna ricostruire una cultura politica diffusa che rimetta al centro i diritti sociali e la solidarietà. Ne parla la presidente di Libertà e giustizia, che partecipa all'incontro di Circolo Rosselli e Left, il 24 ottobre a Milano

Il nostro Paese la forma di governo parlamentare è consustanziale all’unità nazionale e alla proclamazione del Regno d’Italia, spezzata solo dalla dittatura fascista nel ventennio e prontamente ripristinata dal voto popolare subito dopo la Liberazione. Quando, nel 2022, Fratelli d’Italia si presentò alle elezioni, la volontà di modificare l’assetto costituzionale nato dalla Resistenza introducendo un populismo tecnico fondato molto più sulla “governabilità” che sulla giustizia sociale era dichiarata. Il presidenzialismo, si leggeva al punto 24 del programma elettorale di FdI, è «la più potente misura economica di cui necessita l’Italia», indispensabile per assicurare «stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo».
Dopo venti mesi di governo Meloni, caratterizzati dalla sistematica occupazione di ogni possibile spazio di potere, sembra più attuale che mai la domanda se sia lecito – a un partito che non ha mai reciso i legami che da Alleanza nazionale risalgono al Movimento sociale italiano, e da lì alla Repubblica sociale italiana – parlare di rapporto diretto «tra cittadini e chi guida il governo» senza evocare lo spettro di un governo autoritario. «Antifascismo e democrazia coincidono, e questa coincidenza ha la sua tavola fondativa nella Costituzione. È un caso che chi non vuole dichiararsi antifascista sia lo stesso che, la Costituzione, vuole cambiarla?» chiede il presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky.
L’attuale governo conta su una maggioranza composta da un numero di seggi schiacciante, risultato di elezioni disertate da 17 milioni di italiani, e di una legge elettorale sbilanciata al punto da aver costretto l’opposizione a un ruolo quasi testimoniale. È con un Parlamento ridotto di numero e leso nella propria credibilità grazie al sistematico ricorso alla decretazione d’urgenza, che oggi ci avviamo sulla strada delle riforme volute da un governo che, dopo aver fatto bottino degli spazi mediatici e istituzionali, ha preso per sé più di mille nomine tra enti, ministeri, consigli di amministrazione delle società partecipate, e ha attaccato e messo limiti agli organi di controllo autonomi, dalla Corte dei conti all’Autorità nazionale anticorruzione, da Bankitalia alla Ragioneria dello Stato.
«Vogliamo dare ai cittadini il potere di decidere da chi essere governati», ripete la presidente del Consiglio. Un concetto semplice, accattivante e fuorviante, che induce a ignorare una differenza decisiva: la Costituzione italiana dà ai cittadini il potere di decidere da chi essere rappresentati, non da chi essere governati. È un salto enorme, che separa l’essere cittadini dall’essere sudditi. Sudditi per un solo mandato, si potrebbe obiettare. È vero, ma cosa potrà fermare una democrazia divenuta “decidente”, saldamente padrona dello spazio di comunicazione e informazione, allergica al dissenso, che ha già proceduto a riformare la giustizia, la sicurezza, la scuola, a istituire leggi “bavaglio”, a varare disegni di legge su abuso d’ufficio, intercettazione, diffamazione, rendendo un campo minato non solo il fiorire di un pensiero politico alternativo ma addirittura l’espressione del libero pensiero?
Lo abbiamo visto in Ungheria, dove la «democrazia illiberale» promessa dal primo ministro Viktor Orbán in un discorso pronunciato nel luglio 2014 ha preso compiutamente piede. In quel discorso, Orbán constatava la morte del modello democratico occidentale, affermando che i regimi autoritari – come quelli di Russia, Cina e Turchia – sono il futuro. «Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società», dichiarava. «Stiamo costruendo uno Stato volutamente illiberale, uno Stato non liberale».
Quello che già oggi avviene in Parlamento, dove il confronto interno alla maggioranza di governo è stato azzerato e il fastidio verso le espressioni di dissenso delle opposizioni è passibile di trasformarsi in violenza fisica, è un anticipo di quanto potrebbe accadere se la riforma del premierato rafforzasse ulteriormente i poteri di un presidente del Consiglio eletto “dal popolo” e riducesse a funzione puramente notarile le prerogative del capo dello Stato.
In poco più di un anno e mezzo di legislatura, le Camere hanno approvato 119 provvedimenti legislativi, 87 dei quali d’iniziativa del governo, e 62 decreti legge, quasi uno a settimana. Un anticipo di fatto della “madre di tutte le riforme”, senza neppure averla sottoposta a referendum, con il 73,1% delle leggi voluto direttamente dalla presidenza del Consiglio, la Consulta tenuta in ostaggio con la mancata elezione del quindicesimo giudice costituzionale, una riforma della giustizia che prevede la separazione delle carriere dei magistrati, la creazione di due distinti Consigli superiori della magistratura e di un’Alta Corte per il disciplinare, per accrescere il peso della politica nel governo autonomo della magistratura.
Perché tanta fretta nel voler suggellare il premierato, che pure solleva forti perplessità all’interno della stessa maggioranza ed espone la presidente del Consiglio ed il governo a un referendum dagli esiti per nulla scontati, quando i numeri di cui dispongono in Parlamento sono già tali da dargli poteri fortissimi? Poteri tali da rendere possibile far ripetere le votazioni quando la maggioranza viene battuta (come nel caso delle commissioni d’inchiesta sulla gestione della pandemia e sull’autonoma differenziata), sovvertendo il pronunciamento parlamentare, o bloccare la sostituzione dei giudici della Corte costituzionale in attesa di «dare le carte», come affermato dalla presidente del Consiglio, con concezione privatistica delle istituzioni? Forse per una sincera aspirazione “rivoluzionaria” che implica l’urgenza di plasmare un nuovo ordine che ridefinisca strutturalmente le forme di governo dello Stato.
«Lo Stato legalitario è uno strumento di legalità che si presta alla politica di qualsiasi partito», scriveva Piero Calamandrei ne Il fascismo come regime della menzogna, «ma ci sono altri partiti, ai quali più propriamente si adatta l’attributo di rivoluzionari, i quali prima che i problemi di sostanza, attinenti al contenuto del diritto, si pongono i problemi di forma, attinenti al modo di formularlo: i quali ritengono, cioè, che prima di passare alla risoluzione delle concrete questioni economiche e sociali, sia necessario stabilire un “ordine nuovo”, un nuovo metodo per creare le leggi destinate a risolverle. Tra questi partiti, per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo, il quale», leggiamo nel capitolo dedicato al “regime della menzogna costituzionale”, «è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri».
Per mettere in salvo i «logori ingranaggi della libertà» abbiamo bisogno di un’opposizione unita, che non cerchi scorciatoie né brandelli di potere, che sappia parlare con le persone, che non le abbandoni al deserto informativo e alla semina di propaganda governativa.
Ricostruire una cultura politica diffusa, che faccia intendere l’importanza di ripristinare la separazione dei poteri, principio fondante della democrazia costituzionale, e di restituire al Parlamento le sue prerogative. Di difendere la Costituzione ma soprattutto di metterla in atto, a cominciare dalla sua base di diritti sociali e di solidarietà.

(Dal libro di Left Contro il premierato. In difesa della democrazia)

Illustrazione: Valentina Stecchi

L’autrice: Daniela Padoan, scrittrice e saggista, è presidente di Libertà e Giustizia. È tra i partecipanti all’incontro a Milano del 24 ottobre “Premierato, autonomia differenziata, sicurezza: il progetto autoritario nelle riforme della destra” organizzato da Circolo Rosselli Milano, Left, Circolo Caldara e Libertà e Giustizia.