I miei primi ricordi coscienti iniziano con i giorni della malattia di Stalin e della sua morte nel marzo 1953. Nella mia memoria probabilmente sono impressi anche altri eventi precedenti, a quella data infatti avevo già quasi quattro anni, ma non riesco a datarli con precisione. Le voci sulla malattia di Stalin cominciarono a circolare dopo il primo marzo. Lo ritrovarono che giaceva a terra privo di sensi nella sua dacia di Kuntsevo, dove aveva vissuto negli ultimi anni. È lì che accorsero i principali membri del Politburo, tra cui Krusciov, Malenkov e Beria (con i quali si era incontrato dal 28 febbraio sino alle prime ore del mattino del 1° marzo). Ma solo dopo lunghe discussioni si decise finalmente di far intervenire dei medici. Nella notte del 4 marzo fu dunque pubblicato un bollettino ufficiale, in cui i sintomi diagnosticati potevano far capire a medici e a chiunque sapesse qualcosa di medicina che Stalin stava ormai lottando con la morte. Si parlava infatti di respirazione Cheyne-Stokes, un sintomo tipico dell’emorragia cerebrale nella fase fatale. Quegli scienziati che, dopo la morte di Stalin, vennero rilasciati dal gulag avrebbero poi ringraziato questi due medici del XIX secolo (da cui quella respirazione prendeva il nome) “per il loro aiuto”, come fossero stati loro forieri della morte di un uomo che era ritenuto immortale.
All’epoca ero l’unica bambina piccola della nostra numerosa famiglia, e probabilmente fui io in quei giorni a distrarre mia nonna e soprattutto il nonno da pensieri cupi. Lui si prendeva tanta cura di me, mi leggeva o mi raccontava delle storie.
Il mio posto preferito nel nostro appartamento era tra le gambe della sua massiccia scrivania d’inizio secolo che, come tutti i nostri mobili, proveniva dall’hotel Lux. Nessuno mi veniva a prendere da lì sotto quando a casa arrivavano degli ospiti o in famiglia si discutevano cose importanti. Pensavano che fossi troppo piccola e che comunque non avrei capito nulla. In quei giorni infatti arrivavano in continuazione dei parenti, conoscenti o amici dei miei genitori, e ognuno di loro cercava di capire che cosa stesse succedendo. Tutti volevano chiedere soprattutto a mio nonno che cosa sarebbe accaduto, dopo tutto lui conosceva meglio di ogni altro il carattere di chi era al potere. Quelle conversazioni erano piene di preoccupazione e qualcuno era già nel panico.
In molti c’era l’idea radicata che Stalin fosse stato l’ultima linea di difesa, mentre ora Beria e Malenkov – che all’epoca era de facto il secondo uomo dietro Stalin – avrebbero diffuso un terrore sanguinario.
Quando in seguito parlavamo ancora dell’atmosfera di quei giorni, mio padre ricordava quel che mio nonno disse all’epoca: “No, la situazione non peggiorerà. Al contrario, dopo la morte di Stalin inizieranno i primi cambiamenti in meglio, ora dovranno per forza allentare un po’ le viti”. E lui era quasi l’unico allora a dirlo con una certa convinzione.
Pochissimi in effetti riuscivano a mala pena a immaginarsi che Stalin fosse mortale. Ricordo ancora un episodio che probabilmente ebbe luogo proprio il 4 marzo 1953. Quel giorno andai con mia madre in un grande negozio dietro l’angolo, che mi piaceva molto perché all’interno aveva un’enorme scalinata e delle bellissime sculture che ricordavano l’antico splendore Art Nouveau, di cui però purtroppo, dopo una brutta ristrutturazione, era rimasto ben poco da ammirare. Comunque, e con mio grande rammarico, quella volta non entrammo nel negozio, ma ci siamo unite alla lunga coda che si era formata all’ingresso posteriore di quei grandi magazzini. Lì c’era già molta gente in fila per delle uova davanti a un bancone nel cortile posteriore. È quello che a volte si faceva a quei tempi quando le persone in coda erano troppe e la fila era diventata troppo lunga.
Io odiavo stare lì in piedi e trovavo noiosa quella lunga attesa in fila. Inoltre, in quei giorni faceva abbastanza freddo. Mia madre indossava la pelliccia di castoro di mia nonna e sembrava molto grassa, anche perché era incinta di mia sorella. Ci trovavamo quindi in questa lunga coda grigia, la gente era silenziosa e l’atmosfera in qualche modo cupa e tesa. Io mi sentivo raggelare e cominciai quindi ad agitarmi e a pensare come rendere più interessante quella dura attesa. L’idea che mi venne allora in mente mi sembrava perfetta, anzi pensavo di prendere più piccioni con una fava: da un lato stavo per chiedere qualcosa che mi interessava davvero, perché a casa in quei giorni tutti ne parlavano. Dall’altro lato, potevo anche darmi un po’ di arie e mostrare a tutti quanto fossi intelligente e quante cose già sapessi. Allora in fondo non ero altro che una gran chiacchierona.
Così chiesi a mia madre e a voce abbastanza alta in modo che chi mi stava intorno mi sentisse chiaramente: “Mamma, è già morto Stalin?”.
Stavo già per aggiungere qualcosa del tipo: “Il nonno dice che…”, ma mia madre mi strinse subito e molto forte la mano, per la prima e ultima volta in vita mia così forte da farmi male.
Dopo quelle mie parole, sembrò come se tutti gli altri intorno a noi si fossero pietrificati. Ma a un certo punto la donna davanti a noi si girò di scatto e sibilò in tono minaccioso a mia madre: “Dovrebbe chiuderle la bocca alla sua bambina! Anche i nostri vicini avevano una ragazzina così che chiacchierava sempre, e alla fine si sono portati via lei e tutta la famiglia”. Credo che avessi già aperto la bocca per risponderle qualcosa, ma la mamma mi tirò fuori dalla fila, rinunciò alle uova e mi trascinò a casa. Durante il tragitto, lei mi disse una frase sola, ma espressa in modo così categorico che i miei genitori non dovettero mai più ripetermela: “Non tutto quello che si dice a casa può essere ripetuto ad alta voce davanti a estranei. Questo può metterci nei guai”.
Non le chiesi neanche a quale tipo di guai si riferisse esattamente. Ma proprio perché mia madre non si dilungò ulteriormente ero particolarmente spaventata. Da adulta, in seguito, ho riflettuto a lungo su cosa significhi per un bambino dover sapere, e fin dalla più tenera età, di cosa si può parlare e di cosa no. Nella storia del nostro Paese sono tante le generazioni che hanno dovuto assimilare questo tipo di sapere.
(testo tratto dal libro Le mani di mio padre di Irina Scherbakova, edito da Mimesis)
L’appuntamento al festival Mimesis:
L’ultimo libro di Irina Ščerbakova Le mani di mio padre (Mimesis) verrà presentato in anteprima assoluta al Festival Mimesis, a Udine venerdì 25 ottobre ore 17 Torre di Santa Maria, in dialogo con Stefano Vastano. La scrittrice sarà ospite anche alle Giornate della laicità a Reggio Emilia l’1 dicembre.
L’autrice: Irina Scherbakova – Premio Nobel per la Pace 2022 e cofondatrice dell’associazione per i diritti umani Memorial osteggiata negli ultimi anni dal governo russo – ha dedicato parte della sua carriera alla ricostruzione delle storie dimenticate dei dissidenti durante il Terrore e alla raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti ai gulag.
In questo romanzo storico, l’autrice parte dalla vicenda della sua famiglia per raccontare un intero secolo di storia russa, dalla rivoluzione dei bolscevichi di Lenin passando per le purghe di Stalin, fino alle guerre dell’era Putin.
Il punto di vista è quello degli Scherbakov, famiglia ebraica di origini ucraine che dal 1924 al 1945 visse in due stanze del celebre Hotel Lux, l’albergo del Comintern situato a due passi dal Cremlino.
In apertura: Manifesto di Stalin (da facebook)