Indian summer è il nuovo lavoro di Francesco Venerucci, con Javier Girotto al sax, che sarà presentato il 10 novembre all’Alxanderplatz di Roma. Pianista e compositore attivo sia nell’ambito della cosiddetta “musica colta”, sia in ambito lirico e teatrale, Venerucci è un musicista di primo piano anche e soprattutto sulla scena jazzistica italiana ed internazionale.
Oltre ad una ricca produzione di composizioni di musica orchestrale e da camera, ha all’attivo la realizzazione di due opere liriche – il dramma musicale Kaspar Hauser, con libretto di Noemi Ghetti, e la profonda rielaborazione dello Scanderbeg, di Vivaldi, con nuovo libretto di Quirino Principe.
Come pianista e compositore Jazz ha finora pubblicato quattro album – Tango Fugato nel 2007, Early Afternoon e poi Tramas, in collaborazione con il grande sassofonista Dave Liebman tra il 2017 ed il 2019 – ed il recentissimo Indian Summer, uscito su Alfa Music il 18 ottobre scorso. Lo abbiamo incontrato in occasione della pubblicazione del suo nuovo lavoro.
Come è nata l’idea di questo disco e a che cosa allude il titolo?
L’idea di questo progetto risale a diversi anni fa ed ha avuto una genesi piuttosto lunga, anche se poi è stato realizzato in tempo relativamente breve. Il titolo dell’album Indian Summer proviene dalla suggestione per una frase ricorrente ripresa dalle lunghe conversazioni avute con Dave Liebman al tempo della nostra stretta collaborazione.
È un titolo in qualche modo evocativo – con un ricco passato sia in ambito letterario che teatrale – che gioca su di un doppio significato, visto che in realtà fa riferimento a quella che noi chiamiamo “l’estate di San Martino”, ovvero quella bella stagione effimera che spesso si avverte a metà autunno prima dell’arrivo dell’inverno.
Come ho appuntato nelle note di copertina, si tratta di una sorta di metafora che riguarda il proprio vissuto personale, la fiducia in una riconquista dei “giorni sereni” dopo le vicissitudini di un periodo particolarmente difficile.
Quali sono i punti di contatto e le differenze rispetto alla tua produzione precedente?
Ho iniziato ad incidere dischi nel 2007, quindi abbastanza tardivamente rispetto alla mia attività di pianista e compositore in ambito jazz. Si tratta di una fetta molto importante nella mia vita nel corso della quale sono successe moltissime cose, e la distanza temporale – cinque anni circa – tra gli ultimi due album è in parte dovuta al periodo del lockdown e della conseguente sospensione delle attività artistiche. A ben vedere tutti e quattro i miei lavori sono tra loro collegati, innanzitutto sono tutti album di brani originali, e avendo la pazienza di volendoli ascoltare uno di seguito all’altro, ci si rende conto che si caratterizzano come una sorta di diario intimo e personale dei miei sentimenti.
Sono inoltre dei brani abbastanza “scoperti” nei quali c’è una predilezione per la forma melodica della musica ed un gusto per l’armonia e per certe atmosfere, se vogliamo “alla Bill Evans”, che hanno un sapore in qualche modo “post romantico” e che tutto sommato sono un po’ fuori dalle tendenze attuali o che vanno per la maggiore in questo momento.
L’altra particolarità sta nel fatto che comunque chi ascolta questo disco può farsi solo un’idea parziale delle mie attività, in quanto negli ultimi anni io ho composto musica per sale da concerto e pubblicato anche brani di musica da camera, ma in ogni caso tutte le mie esperienze restano collegate, perché in qualche modo anche in questi pezzi di jazz si sente un po’ del mio bagaglio culturale di musicista “classico”.
Quindi questo lavoro ha un approccio diverso rispetto a quello dei dischi precedenti?
Indian Summer, a differenza del precedente Tramas , è un classico disco per quartetto jazz, con me al pianoforte, Javier Girotto ai sassofoni, Jacopo Ferrazza al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria. Anche gli arrangiamenti non sono particolarmente elaborati, con l’esposizione del tema e poi gli assoli dei musicisti, per cui se vogliamo c’è anche una ricerca nella direzione di arrivare ad una sintesi, all’essenzialità di un brano. Al contrario il primo disco inciso con Dave Liebman – Early Afternoon – era essenzialmente un disco per piano solo in cui Dave interveniva con il suo sassofono solo in quattro brani, mentre in Tramas c’era un organico molto più articolato, con un classico quintetto Jazz (tromba, sax, piano, basso e batteria) arricchito dalla presenza di un quintetto d’archi e del bandoneon, così come pure nel primo album – Tango Fugato – c’erano i due archi, i fiati, il bandoneon e la sezione ritmica. In qualche modo ho di nuovo “saccheggiato” la formazione degli amici di Aires Tango; infatti, mentre in Tango Fugato avevo coinvolto Marco Siniscalco al basso e Michele Rabbia alla batteria, nel nuovo disco c’è Javier Girotto.
La cosa divertente è che mentre in Tramas ho fatto suonare ed improvvisare un tango a Dave Liebman, che non lo aveva mai fatto, in Indian Summer non c’è nemmeno un tango nonostante la presenza del mio amico argentino. In verità erano vent’anni che desideravo fare qualcosa con Javier ed è stata un’esperienza stupenda da tutti i punti di vista, ha fatto cose magnifiche sia al sax soprano che al sax baritono e ci ha regalato momenti particolari anche utilizzando dei flauti andini. La sua forza sta anche in questa sua immediatezza espressiva con la quale va dritto all’essenza del pezzo.
Oltre a Girotto cosa ci puoi dire degli altri musicisti che hai coinvolto?
Trattandosi di un progetto per quartetto avevo bisogno della massima eccezionalità di ogni singolo elemento: Jacopo Ferrazza non solo fa degli assoli, ma ha anche molte parti obbligate, che ha sviluppato in maniera egregia, anche perché c’è sempre e comunque un approccio polifonico e contrappuntistico in tutti i miei brani che sono concepiti dal punto di vista compositivo in un’ottica potenzialmente orchestrale. Quindi, tenendo conto che abbiamo avuto un tempo piuttosto limitato per lavorare, e anche se non c’è stata una lunga gestazione del progetto, non avevo dubbi sulla sua riuscita finale avendo appunto a disposizione dei musicisti di questo livello, come lo stesso Ettore Fioravanti alla batteria, che resta una colonna portante del Jazz italiano, non solo come strumentista ma come musicista a tutto tondo, per cui mi sentivo assolutamente al sicuro da questo punto di vista.
Come si inserisce un album di jazz piuttosto “classico” nel panorama della produzione attuale?
Come detto mi sento un po’ distante dalle tendenze attuali, la musica oggi sta prendendo tantissime strade diverse, molte di queste sono ahimé piuttosto ripetitive, molto preformate, si stanno affermando dei nuovi canoni stilistici che in un brevissimo lasso di tempo diventano dei nuovi format, ripetuti ed imitati; se qualcuno fa qualcosa di buono, accade che molti altri lo seguano facendo immediatamente qualcosa di molto simile, anche se di qualità, magari anche ben fatto, ma privo di originalità.
Questo accade oggi a causa dell’enorme diffusione delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione?
Non ne sono del tutto convinto, se noi prendiamo un solo anno solare, per esempio il 1969, ci accorgeremmo che solo in quell’anno in cui fu pubblicato Bitches Brew di Miles Davis, uscirono una quantità di dischi, non solo di jazz, ma anche di rock o di canzoni d’autore, ad un livello compositivo, esecutivo e visionario assolutamente pazzesco, che oggi sarebbe assolutamente inconcepibile. Oggi non è più così, c’è molta musica in giro, fatta anche abbastanza bene, ma ripeto, piuttosto “standardizzata”.
Una musica che non riesce ad avere l’impatto culturale che poteva avere all’epoca?
Certamente parliamo di anni diversi, di periodi molto diversi, probabilmente incomparabili proprio per la grande energia innovativa che c’era all’epoca. Certo oggi ci troviamo in una fase storica che è al momento quasi impossibile decifrare, per il semplice fatto che ci siamo ancora totalmente immersi. Quello che veramente sta accadendo forse arriveremo a capirlo tra qualche anno; non c’è dubbio che ci saranno delle nuove idee, nuove direzioni, dei nuovi talenti e tante nuove cose da scoprire strada facendo.
Dal mio punto di vista io faccio il mio discorso personale, che poi è quello che dovrebbero fare tutti quanti, ovvero essere originali e portare avanti con onestà e coerenza quello che si sente in quel momento di poter dire e di poter fare.
L’autore: Roberto Biasco è critico musicale e collaboratore di Left