Il nuovo rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto (Flai Cgil) fotografa e denuncia una filiera dell’illegalità che mortifica il lavoro, toglie dignità alle donne e agli uomini che lavorano in agricoltura in Italia

Dietro i numeri che il settore agricolo italiano continua a vantare si nasconde un dramma sociale ed economico che tocca decine di migliaia di vite. Nonostante l’agroalimentare rappresenti una delle locomotive del sistema Italia, con un valore economico di 73,5 miliardi di euro nel 2023, il suo successo si regge spesso su un sistema che sfrutta i lavoratori più vulnerabili, marginalizzandoli e privandoli dei diritti fondamentali. Come sottolinea Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai-Cgil, «per noi, battersi per la legalità è battersi anche per la giustizia sociale. Ecco perché continuiamo a chiedere un’applicazione completa della legge contro il caporalato, per una società e un modello di sviluppo che tutelino lavoro e ambiente».
Il VII Rapporto Agromafie e Caporalato, redatto dalla Flai-Cgil, evidenzia come un’ampia fetta del settore agricolo italiano si basi su pratiche al limite della legalità, sfruttando la vulnerabilità di lavoratori precari, migranti senza permesso di soggiorno e donne costrette a subire violenze. Secondo il rapporto, oltre duecntomila lavoratori agricoli operano in condizioni di irregolarità, con un tasso del 30% tra i dipendenti. Tra loro, circa 55mila sono donne, spesso invisibili agli occhi delle istituzioni e vittime di pratiche para-schiavistiche. A queste si aggiungono i migranti extra-Ue, particolarmente esposti a violenze, discriminazioni e condizioni di vita degradanti. La loro fragilità è alimentata da leggi come la Bossi-Fini, che, come sottolineato dal segretario nazionale della Flai-Ccgil Giovanni Mininni, «alimentano la fragilità lavorativa, permettendo l’infiltrazione di pratiche al limite dello schiavismo».

In alcune aree, lo sfruttamento è un fenomeno endemico. In Basilicata, più di 10mila lavoratori, tra residenti e stagionali, vivono condizioni degradanti, soprattutto durante la raccolta dei prodotti agricoli. In Calabria, nel Crotonese, si stima che tra 11mila e 12mila persone siano impiegate in nero o in grigio, con una prevalenza di migranti stagionali. In Piemonte, tra Asti e altre zone limitrofe, fino a 10mila lavoratori operano in condizioni disumane, spesso sotto il controllo di sistemi di caporalato che sfruttano ogni aspetto della loro vulnerabilità.
Nonostante l’introduzione della legge 199/2016 per contrastare il caporalato, i progressi sono ancora insufficienti. Nel 2023, i controlli dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sono aumentati del 140%, portando a un incremento degli arresti (+80%) e delle denunce (+207%). Tuttavia, la repressione non basta a eradicare un sistema che trova terreno fertile nell’assenza di politiche migratorie inclusive e nell’esclusione sociale. Il rapporto evidenzia che tra i 7.915 lavoratori coinvolti in violazioni accertate nel 2023, 1.668 erano impiegati in lavoro nero e 146 erano stranieri privi di permesso di soggiorno, un dato che sottolinea il ruolo centrale della mancanza di tutele per i migranti nello sfruttamento lavorativo.
Al vertice di questa piramide dello sfruttamento si trovano i lavoratori italiani, che pur regolarmente assunti percepiscono salari inferiori alla soglia di povertà. In media, guadagnano appena seimila euro all’anno. Alla base, però, la situazione è ancora più drammatica: donne e migranti extra-UE, soggetti a violenze e condizioni di lavoro degradanti, subiscono un futuro negato. Anche i lavoratori regolari vivono una precarietà cronica: «Quasi 300mila lavoratori agricoli regolari hanno rapporti di lavoro intermittenti», evidenzia il rapporto, con retribuzioni che non superano i 12mila euro lordi annui, scendendo spesso sotto i 10mila euro nelle regioni del Centro-Sud.Il rapporto denuncia che questa precarietà si traduce in una “normalizzazione» dell’irregolarità lavorativa, creando una spirale in cui i diritti diventano un’eccezione anziché una regola. Per molti, il passaggio da un settore all’altro non rappresenta una via di emancipazione: oltre il 20% dei lavoratori agricoli che si spostano in altri ambiti continuano a percepire retribuzioni inferiori alla soglia minima oraria. Come evidenziato nel rapporto, “continuare a sfruttare gli anelli più deboli della filiera significa costruire su fondamenta fragili, destinate a crollare”. Non si tratta solo di un problema umano: la criminalità organizzata gioca un ruolo significativo nella filiera, contribuendo anche al degrado ambientale. Il rapporto documenta un aumento dei reati ambientali del 9,1% nel 2023, con sequestri più che raddoppiati (+220,9%). “La devastazione ambientale e umana è il frutto di un sistema produttivo che sacrifica tutto sull’altare del profitto”, si legge nel documento.
Eppure, segnali di speranza emergono. Tra le iniziative virtuose, si distingue quella della Flai-Cgil di Pordenone, che attraverso il “sindacato di strada” porta i rappresentanti sindacali direttamente nei campi. Grazie a questo approccio, sono stati rilasciati contemporaneamente 46 permessi di soggiorno per sfruttamento, un risultato definito “unico in Europa”.
Come sottolinea Jean-René Bilongo della Flai-Cgil, «l’istantanea che emerge da questo VII Rapporto Agromafie e Caporalato mette in luce la spersonalizzazione dell’intermediazione lavorativa, una questione antica del Paese che riemerge con grande forza. Si tratta di uno schema losco e poco visibile sul quale abbiamo il dovere di mantenere alta l’attenzione». Il rapporto ribadisce che riformare le politiche migratorie, superando leggi come la Bossi-Fini, è essenziale per spezzare il circolo vizioso del caporalato. Solo costruendo un sistema basato sull’inclusione, la giustizia sociale e la tutela dei diritti si potrà garantire un futuro sostenibile all’agroalimentare italiano. «Per garantire un futuro sostenibile, bisogna spezzare il legame tra profitto e sfruttamento, puntando su un’economia più giusta, che tuteli chi lavora la terra» conclude il rapporto del sindacato lavoratori agricoli.