Mentre si discute di egemonia culturale, per molti italiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire

La parola “competenze” è una di quelle che si sentono più spesso nel discorso pubblico legato alla competitività del Paese, alla qualità del lavoro e alla crescita sociale. Nella “cassetta degli attrezzi” di un Paese contemporaneo essa rappresenta uno degli “utensili” più necessari.
Il cinquantottesimo Rapporto annuale Censis, anno 2024, descrive lapidariamente l’Italia come la “fabbrica degli ignoranti”.
Qualche esempio sui risultati della formazione scolastica e sul livello di cultura generale: “per quanto riguarda il sistema scolastico, non raggiungono i traguardi di apprendimento in italiano: il 24,5% degli alunni al termine delle primarie, il 39,9% al termine delle medie, il 43,5% al termine delle superiori (negli istituti professionali il dato sale vertiginosamente all’80,0%). In matematica: il 31,8% alle primarie, il 44,0% alle medie e il 47,5% alle superiori (il picco si registra ancora negli istituti professionali, con l’81,0%). Il 49,7% degli italiani non sa indicare correttamente l’anno della Rivoluzione francese, il 30,3% non sa chi è Giuseppe Mazzini (per il 19,3% è stato un politico della prima Repubblica), per il 32,4% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo, per il 6,1% il sommo poeta Dante Alighieri non è l’autore delle cantiche della Divina Commedia”.
Le carenze formative si traducono, inevitabilmente, nel rapporto con la realtà: “mentre si discute di egemonia culturale, per molti italiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire (del resto, per il 5,8% il ‘culturista’ è una ‘persona di cultura’). Nel limbo dell’ignoranza possono attecchire stereotipi e pregiudizi: il 20,9% degli italiani asserisce che gli ebrei dominano il mondo tramite la finanza, il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia, per il 9,2% la propensione a delinquere avrebbe una origine genetica (si nasce criminali, insomma).” Ancora: “il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato” e “il 38,3% si sente minacciato da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti”.
Competenze scarse e formazione deficitaria, inevitabilmente, si traducono in un Paese declinante e ne sono, a un tempo, lo specchio: “negli ultimi vent’anni (2003-2023) il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%. E nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. La sindrome italiana nasconde non poche insidie. L’85,5% degli italiani ormai è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale”. D’altronde, è già ben noto che l’ascensore sociale, per gli italiani, nel Paese post boom economico, si è fermato ai nati nel 1971. La fuga dei giovani più preparati verso altri Paesi che assicurano un futuro più stabile e prospero è, allo stato dei fatti, inevitabile.
Tutto questo in un quadro contingente, lo abbiamo già sottolineato molte volte, di crisi generale del tessuto produttivo europeo: la manifattura arretra, in Italia le ore lavorate si spostano dall’industria ai servizi, ossia da settori che offrono i contratti nazionali di lavoro di maggior qualità, a quelli, come turismo e ristorazione nei quali le retribuzioni e l’insieme delle condizioni lavorative sono tra le peggiori. Con le ovvie conseguenze, in un Paese che invecchia rapidamente, sul sistema del welfare.
La fragilità sociale è il dato di sintesi dello stato delle cose nel Paese. Nella complessità globale dei rapporti di forza economici e politici del pianeta in questo scorcio del XXI Secolo, una presa di coscienza collettiva è difficile quanto essenziale. Ai decisori politici spetterebbe la responsabilità di smettere di rincorrere il consenso attraverso la lettura dei sondaggi settimanali. Con gli slogan non si governa.
Non esistono risposte semplici alla realtà contemporanea. E la politica ha il dovere di studiare e ricostruirsi una cultura capace di incrociare le immense sfide che si deve fronteggiare. Difficile. Assolutamente necessario.

Il fermaglio di Cesare Damiano

L’autore: sindacalista, già ministro del Lavoro, è presidente di Lavoro e Welfare