Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar ha comunicato la decisione di chiudere l’ambasciata israeliana a Dublino, “a causa delle politiche anti-israeliane estreme del governo irlandese”. La decisione, il 15 dicembre scorso, ha alzato notevolmente la temperatura dei rapporti fra Israele e Irlanda, forse il Paese europeo nel quale la solidarietà con il popolo palestinese è più forte, a tutti i livelli, dalle cittadine e cittadini comuni fino ai vertici delle istituzioni.
Nel suo comunicato Gideon Saar ha insistito in particolare su tre questioni: la decisione di Dublino di aderire alla causa intentata dal Sudafrica contro Tel Aviv presso la Corte internazionale di giustizia, il riconoscimento dello “Stato palestinese”, con tanto di virgolette, annunciato dall’Irlanda lo scorso maggio, e l’accusa a Dublino di non avere adottato misure efficaci per contrastare quella che ha definito l’impennata dell’antisemitismo in Irlanda.
Nei giorni successivi il ministro degli esteri israeliano è andato oltre, definendo il Taoiseach (premier) Simon Harris “Primo ministro antisemita” ed è arrivato addirittura a bollare il presidente della Repubblica Michael D. Higgins come “bugiardo antisemita”. Va chiarito subito che la decisione comunicata il 15 dicembre non equivale alla rottura dei rapporti diplomatici, che restano formalmente in piedi, ma ovviamente è un passo molto significativo e piuttosto drammatico. E fa seguito, va ricordato, alla decisione presa lo scorso maggio dallo stesso ministro degli Esteri israeliano di richiamare in patria l’ambasciatrice Dana Erlich a seguito del formale riconoscimento da parte di Dublino dello Stato palestinese.
Di seguito qualche dettaglio sui tre punti citati dal ministro Gideon Saar nel suo comunicato. Il primo riguarda la ‘causa sudafricana’. Lo scorso 11 dicembre il gabinetto guidato da Simon Harris ha approvato la decisione di aderire a due cause in tema di genocidio depositate presso la Corte internazionale di giustizia: quella intentata dal Sudafrica contro Tel Aviv e quella del Gambia contro Myanmar per il trattamento dei Rohingya. Nel caso della prima, Dublino ha aggiunto che intende chiedere di ampliare il concetto di genocidio, perché ritiene che un’interpretazione eccessivamente ristretta della definizione favorisca una cultura dell’impunità nella quale la protezione dei civili risulta gravemente compromessa. La decisione era stata anticipata dal Tánaiste (il vicepremier) Micheál Martin lo scorso marzo. Un particolare che può avere ulteriormente irritato Tel Aviv è che la decisione è stata presa da quello che era già di fatto un governo di transizione, incaricato di gestire l’ordinaria amministrazione fino all’insediamento del prossimo esecutivo, a seguito delle elezioni generali che si sono tenute il 29 novembre.
Il secondo punto è relativo al riconoscimento dello Stato di Palestina. La decisione è stata annunciata da Dublino lo scorso 22 maggio insieme a Oslo e a Madrid. In quell’occasione il Taoiseach Simon Harris ricordò come, il 21 gennaio 1919, fu l’Irlanda a chiedere che venisse riconosciuto il proprio diritto a essere uno Stato indipendente: “Oggi usiamo le stesse parole per sostenere il riconoscimento della Palestina come Stato. Lo facciamo perché ‘crediamo nella libertà e nella giustizia come principi fondamentali del diritto internazionale’ e perché crediamo che una ‘pace permanente’ possa essere garantita solo ‘sulla base della libera volontà espressa da un popolo libero'”. Il comunicato conteneva anche una condanna esplicita del “nichilismo” di Hamas e del “barbaro massacro” del 7 ottobre 2023, invocava la liberazione immediata di tutti gli ostaggi e ribadiva, in modo “risoluto e inequivocabile”, il “pieno riconoscimento dello Stato di Israele e del suo diritto a un’esistenza in condizioni di sicurezza e di pace fra i Paesi con i quali confina”.
Il terzo punto sollevato dal ministro Gideon Saar è quello della presunta crescita dell’antisemitismo in Irlanda. A proposito di questo va sottolineato come, non solo nel caso irlandese, l’accusa di antisemitismo venga ormai usata in modo piuttosto spregiudicato da molte figure delle istituzioni e dei media israeliani. Come ha osservato il presidente irlandese Higgins due giorni dopo l’annuncio della chiusura dell’ambasciata israeliana, “insinuare che chi critica il primo ministro Netanyahu sia antisemita è clamorosamente diffamatorio e calunnioso”. Per entrare nel merito, non c’è niente di più indicato che il rapporto del Ministero degli affari della diaspora e della lotta all’antisemitismo pubblicato da Tel Aviv lo scorso novembre. Da questo rapporto emerge che i primi tre Paesi nei quali si è registrato l’aumento più marcato degli episodi di antisemitismo (sia online sia nel mondo reale), nei 12 mesi successivi al 7 ottobre 2023, sono il Regno Unito, la Germania e la Francia, con 44, 39 e 34 casi rispettivamente. Il rapporto specifica che gli episodi gravi (pur senza vittime) sono stati cinque in Francia, due rispettivamente in Germania e nel Regno Unito e uno in Svizzera. In Irlanda se ne è registrato soltanto uno, un’aggressione senza gravi conseguenze a un giovane statunitense di origine ebraica avvenuta nelle prime ore del mattino all’interno di un pub, il giorno dopo gli incidenti di Amsterdam fra tifosi dell’Ajax e del Maccabi Tel Aviv. Come ha ricostruito la polizia, chiamata dalla sicurezza del locale, il giovane, che portava al collo una piccola stella a sei punte, si è sentito chiedere “Sei ebreo?” prima di essere aggredito e percosso. Nel Regno Unito, per fare un confronto, i casi sono stati 5 volte tanti, fatte le debite proporzioni in base ai dati demografici. L’unico vero campanello d’allarme, nel rapporto, relativo all’Irlanda, è un dato estremamente alto di post online il cui contenuto viene definito antisemita. Tutto questo, è bene ricordarlo, in un rapporto che indica fra i “generatori di antisemitismo” Jean-Luc Mélenchon e Jeremy Corbyn.
Il capo dell’opposizione alla Knesset, Yair Lapid, leader del partito di centro Yesh Atid ed ex primo ministro per una breve parentesi nel 2022, ha criticato la decisione di chiudere l’ambasciata scrivendo che il governo israeliano ha così deciso di “darla vinta all’antisemitismo e alle organizzazioni anti-israeliane. La risposta a una crisi non è scappare, ma restare e combattere”.
In Irlanda, il Taoiseach Simon Harris ha risposto al comunicato di Gideon Saar definendo la decisione di Tel Aviv “davvero spiacevole” e ha respinto le accuse, negando che l’Irlanda sia mossa da sentimenti anti-israeliani e rivendicando il diritto di essere “a favore della pace, dei diritti umani e del diritto internazionale”. Il Tánaiste Micheál Martin, che è anche ministro degli Esteri (e che con ogni probabilità sarà il prossimo presidente del Consiglio), ha aggiunto che i due Paesi manterranno rapporti diplomatici, sottolineando che in questi rapporti deve però rientrare il diritto di manifestare consenso o dissenso anche su questioni fondamentali. Mary Lou McDonald, la presidente del principale partito di opposizione al governo uscente, Sinn Féin, ha detto che per fermare il genocidio del popolo palestinese a Gaza è prima necessario mettere fine all’impunità di cui gode Israele e ha esortato il governo a proclamare al più presto la Legge sui territori occupati. Più o meno sulla stessa linea gli altri partiti di opposizione. People Before Profit, che è forse il partito più di sinistra per gli standard italiani, ha rivendicato la decisione di Israele come una vittoria di chiunque si stia impegnando per i diritti del popolo palestinese.
Qualche voce critica rispetto alla posizione del governo irlandese è arrivata dall’estrema destra. Un esempio è quella espressa dal sito di informazione Gript, che è diventato noto al grande pubblico soprattutto durante i giorni di tensione del novembre 2023, quando il centro di Dublino venne messo a ferro e fuoco da giovani accorsi dalle periferie, incitati dalla predicazione dell’estrema destra sui social, a seguito del ferimento di tre bambini e di un adulto fuori da una scuola da parte di un uomo di origine algerina. Nelle ore successive all’annuncio di Gideon Saar il direttore di Gript, John McGuirk, ha scritto un articolo nel quale sostanzialmente dava ragione al governo di Tel Aviv e definiva quanto accaduto un disastro diplomatico di cui sarebbe responsabile la politica irlandese. Rispondendo a quanti si chiedono perché Tel Aviv se la sia presa così tanto con l’Irlanda e non, ad esempio, con la Spagna (che a sua volta ha fatto sentire la sua voce in diversi modi contro l’offensiva israeliana in Palestina), John McGuirk ha detto in sostanza che la ragione è che l’Irlanda conta molto meno di altri Paesi sul piano internazionale.
Un altro fattore di tensione fra il governo irlandese e Tel Aviv è il disegno di legge sui territori occupati, un provvedimento che, se approvato, vieterebbe qualunque scambio commerciale o sostegno economico verso comunità che si trovano su territori considerati occupati dal diritto internazionale. Il disegno di legge è stato introdotto nel 2018 alla Camera alta dalla senatrice indipendente Frances Black, è passato alla Camera dei deputati, ha superato tutte le tappe necessarie ed è stato infine bloccato dal governo, con la motivazione che sarebbe in conflitto con le regole del mercato unico dell’Unione europea. Tuttavia, come ha ricordato l’europarlamentare di Sinn Féin Lynn Boylan nell’intervista rilasciata a Left lo scorso novembre, la questione è stata posta ai partiti in occasione delle politiche del 2020 e, con l’eccezione di Fine Gael, tutti i partiti si erano detti favorevoli a fare entrare in vigore la legge. Poi, però, Fianna Fáil e i Verdi hanno formato il governo di coalizione con Fine Gael e il partito del premier Simon Harris ha continuato a bloccare il disegno di legge. Nel frattempo la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegale l’occupazione dei Territori palestinesi e il governo di Dublino ha riconosciuto che il pronunciamento potrebbe aprire la strada alla legge, ma ha rimandato la decisione a dopo le elezioni generali.
La preoccupazione di Tel Aviv intorno a questo disegno di legge è stata ribadita nelle numerose interviste rilasciate a seguito dell’annuncio di domenica dall’ambasciatrice israeliana in Irlanda, Dana Erlich, la quale ha avvertito che l’entrata in vigore della legge impedirebbe alle multinazionali statunitensi di proseguire la loro attività in Irlanda. La questione non può non preoccupare il ceto politico irlandese, anche perché si aggiunge ai timori suscitati dalle misure che potrebbe prendere Donald Trump in tema di commercio estero e tassazione delle imprese statunitensi. Le politiche protezionistiche annunciate dal prossimo inquilino della Casa bianca minacciano di scatenare una guerra commerciale globale che potrebbe avere gravi ripercussioni economiche per l’Europa. Uno dei Paesi europei più esposti è proprio la Repubblica d’Irlanda, che è il terzo Paese per le esportazioni verso gli Stati uniti fra i ventisette dell’Unione europea. Nel 2023 l’Irlanda ha esportato negli Usa beni per 54 miliardi di euro, due volte e mezza quanto esportato nel Regno Unito. I due principali settori coinvolti sono quello chimico e quello farmaceutico e fanno capo in gran parte (per circa l’80 per cento) alle multinazionali statunitensi presenti nel Paese. E questo è il secondo aspetto: Trump ha espresso l’intenzione di abbassare l’aliquota dell’imposta sulle società dal 20 al 15 per cento per alcune aziende con sede negli Stati uniti. In Irlanda, l’imposta sulle aziende è pari al 15 per cento. Quindi, se il nuovo Presidente mettesse in pratica quanto adombrato, le aziende Usa sarebbero meno incentivate a investire in Irlanda invece che in patria. Anche se, occorre aggiungere, a quelle che hanno già sedi in Irlanda non converrebbe chiudere per riaprire negli Stati uniti.
Va aggiunto che preoccupazione per la possibile entrata in vigore della Legge sui territori occupati è stata espressa recentemente anche dalla Camera di commercio degli Stati Uniti. La questione è stata sollevata da funzionari dell’ente, in visita a Dublino la settimana prima dell’annuncio della chiusura dell’ambasciata israeliana, direttamente con il ministro delle Finanze irlandese Jack Chambers e con il collega all’Impresa, commercio e impiego Peter Burke. In conclusione, una piccola digressione storica: in questi giorni si è parlato molto dell’ex Taoiseach Éamon de Valera e delle sue famigerate condoglianze per la morte di Adolf Hitler nel maggio 1945. L’episodio è stato richiamato, ad esempio, in un tweet di Michal Cotler-Wunsh, ex deputata alla Knesset e attuale inviata speciale in Israele per il contrasto all’antisemitismo. Il post è stato ritwittato su X il 15 dicembre dal ministro degli esteri Gideon Saar poco dopo il tweet con il quale annunciava la decisione relativa all’ambasciata. Il tweet di Cotler-Wunsh conteneva una serie di punti che vorrebbero dimostrare la tradizione anti-israeliana delle autorità irlandesi. Il primo richiamava proprio l’episodio del 1945, una vicenda interessante che merita di essere approfondita e chiarita.
I fatti sono questi: la sera del 2 maggio 1945 l’allora capo del governo irlandese Éamon de Valera, appresa la notizia del suicidio di Adolf Hitler, si recò personalmente a casa del capo della delegazione diplomatica tedesca Eduard Hempel per presentargli le sue condoglianze. Il Taoiseach non si recò quindi presso la sede diplomatica e non firmò alcun registro di condoglianze, dettaglio che entrò più tardi nella vulgata ma che non è suffragato da alcuna evidenza storica.
Su questo episodio vanno dette in breve alcune cose. Innanzitutto, lo Stato delle 26 Contee, formalmente neutrale durante la Seconda guerra mondiale, di fatto aiutò in tutti i modi possibili le potenze alleate. Per fare un paio di esempi: i piloti della Luftwaffe che atterravano in condizioni di emergenza sul suolo dello Stato del sud venivano regolarmente internati, mentre i loro colleghi di parte alleata venivano caricati in macchina e portati al confine con l’Irlanda del Nord. Il secondo esempio è un po’ più complesso e ancora più interessante. La presenza di una delegazione diplomatica tedesca a Dublino era considerata importantissima dall’Mi5 per il successo della proprio attività di controspionaggio. Il servizio segreto britannico, infatti, aveva interpretato i codici usati dalla sede diplomatica tedesca, ne controllava la corrispondenza riservata e se ne serviva per veicolare false informazioni a Berlino. La cosa emerse nella seconda metà del 1943 quando l’Oss (l’antesignano della Cia) segnalò una possibile fuga di notizie riservate in Irlanda. I colleghi dell’Mi5 rassicurarono gli americani spiegando che la sede diplomatica di Dublino era uno strumento importantissimo per fornire informazioni false al nemico e anche per impedire che Berlino decidesse di infiltrare una spia nell’amministrazione irlandese. A quel punto, i funzionari dell’Oss conclusero che la situazione della sicurezza a Dublino era molto migliore di quanto avessero immaginato.
A quanto risulta, alla base della decisione presa da Éamon de Valera quel 2 maggio, e della quale, pare, più tardi si pentì, c’era una questione personale, cioè il rapporto burrascoso fra l’allora Taoiseach e il capo della missione diplomatica statunitense a Dublino, David Gray. I due si detestavano cordialmente: David Gray aveva cercato in tutti i modi di convincere de Valera ad abbandonare la posizione di neutralità del suo Paese e non faceva niente per nascondere la sua antipatia per il premier irlandese. Al contrario, de Valera provava rispetto e stima per Eduard Hempel, che considerava una persona corretta. Pare quindi che la famigerata visita al capo delegazione della Germania nazista sia stata banalmente una ritorsione di Éamon de Valera nei confronti dell’odiato Gray e un gesto di personale vicinanza nei confronti di Hempel.
Va ricordato infine che la Costituzione dello Stato irlandese, approvata nel 1937, conteneva un riferimento specifico alla tutela della religione ebraica. La menzione, che rendeva all’epoca unica la Costituzione irlandese, fu voluta proprio da Éamon de Valera in considerazione del trattamento che il popolo ebraico subiva in quegli anni in Europa. Tant’è che in Israele, nei pressi di Nazareth, si trova una foresta che porta proprio il nome di Éamon de Valera. Fu dedicata all’ex Taoiseach per iniziativa di una delegazione di ebrei irlandesi che nel 1966 si recò sul posto per organizzare la piantumazione di 1500 alberi su un terreno di proprietà del Fondo nazionale ebraico.
L’autore: Carlo Gianuzzi è co-autore e co-conduttore di Diario d’Irlanda, trasmissione diffusa da Radio Onda d’Urto
Nella foto: il presidente irlandese Higgins e il premier israeliano Netanyahu