Alcune riflessioni su una parola chiave della vita civile e collettiva

L’etica si occupa dell’agire umano. È scienza dell’agire. E come tale permette di giudicare la fondatezza morale delle azioni, perché dà i presupposti formali dell’agire bene. Non è quindi un elenco di norme, ma riflessione sulle condizioni e possibilità che garantiscono l’esercizio della libertà di scelta. L’etica, quindi ci dà i fondamenti (επιστήμη – epistème) che ci permettono di dire se un’azione è buona e giusta.
Ma come facciamo a capire se quel che scegliamo sia più o meno giusto? Ed è questa la questione centrale della complessità e difficoltà della scelta; delle scelte che determinano la nostra esistenza e caratterizzano quel che siamo e diventiamo. In un modo o in un altro… o in tanti altri ancora! Ecco allora che l’etica è davvero una cosa seria.
Ogni azione implica una intenzionalità in vista di un risultato ipotizzato e necessita della volontà per cercare di conseguirlo. L’azione è quindi messa in opera della individuale libertà di scelta. Una libertà che ci fa pronunciare ogni volta un sì, o un no.
Pertanto, anche nelle situazioni in cui magari non vorremmo mai trovarci, comunque scegliamo. Siamo sempre noi i padroni di quella scelta. Scegliere in un modo o in un altro è sempre e comunque un fatto. Un fatto nostro. Ineludibile. E se troviamo più semplice adattarci alla consuetudine, non possiamo rifugiarci nel mantra “del così fan tutti” di cui restiamo in ogni caso complici.
Poiché ogni scelta determina risultati, essa è un atto creativo, con cui strutturiamo il nostro individuale particolare esser-ci nel mondo. Nella successione delle scelte e nelle loro interrelazioni, si determina la realtà esistenziale di ogni persona.
La scelta è il nostro peso e la nostra leggerezza!
Nasciamo per caso. Dobbiamo morire. Tra la casualità della nascita e la certezza della morte, c’è la gestione della vita: in spazi e tempi finiti.
È la mia esistenza a tempo, che non permettendomi di vivere di là del tempo storico-biologico, mi fa assumere la responsabilità del mio particolare esser-ci nel mondo.
La mia individualità diventa così consapevolezza proprio nella responsabilità della mia esistenza, a cui dò forma attraverso la successione delle mie scelte.
Ma poiché nessuno è un’isola, le mie scelte non determinano soltanto chi io sono, ma incidono anche su quanto e quanti mi circondano. E non solo nell’immediato.
Noi viviamo infatti nel mondo. È questa condizione di fatto che implica interazione reciproca di condotte. Ecco allora che scegliendo ho anche la responsabilità per il tipo di società che contribuisco a determinare con le mie azioni.
Poiché la responsabilità non è mai comoda, c’è chi spera forse di potervisi sottrarre ponendosi sotto la cappa consolatoria di modelli già dati. Crede insomma di potersi salvare dalla fatica di scegliere e dalla responsabilità di quello che fa o che non fa, affidandosi alla consuetudine.
È pura illusione! Costui infatti sceglie e come! Sceglie di adeguarsi a una precettistica. E ha la responsabilità di essere portatore di un pacchetto morale che esige conformismo per sé e per gli altri nell’adeguamento a un modello precostituito, assoluto e totalitario a cui fideisticamente aderire.
E lì dove questo accade, c’è il circolo tutto concluso dei replicanti in nome di un qualche supremo Essere. Dove prevale l’Essere dilegua l’esser-ci, perché la pluralità dei possibili dilegua, perché la vita presupposta come “virtuosa” è già tutta sigillata in norme indiscutibili.
Si pensi a quelle stabilite nei così detti libri sacri, di cui per altro si arrogano l’interpretazione i così detti “detentori del sacro”, che hanno cercato e cercano di esercitare un potere di controllo sociale.
Per parlare di casa nostra dove, di fronte alla sempre maggiore riduzione dell’ortodossia degli stessi credenti, l’ecumenismo non demorde: «la Chiesa si interessa agli aspetti temporali del bene comune in quanto sono ordinati al Bene supremo, nostro ultimo fine.» (Catechismo della Chiesa cattolica, canone 2420). Tutto blindato, stabilito, indiscutibile! Così la scelta è risolta nella docilità dell’obbedienza.
Non a caso il religiosissimo Kierkegaard affermava in Timore e tremore che «la fede comincia dove il pensiero finisce», e affogava la singolarità dell’autonomia morale nell’afasia di Abramo pronto a eseguire il “divino ordine” con «infinita rassegnazione».
Abramo è la negazione dell’etica, perché non si interroga su quell’ordine di uccidere suo figlio. La sua fede è il paradosso logico che vanifica l’etica in sé e per sé: «Egli ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo telos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa».
Al contrario, per il laico l’azione non ha la sua giustificazione in un ordine posto sulle ginocchia di un qualche dio, né in un’abitudine e neppure in un capriccio.
La garanzia della bontà dell’azione, ciò che la rende eticamente fondata, è la scelta dell’azione per il fine che ha in sé stessa. È questo che fa buona la scelta. Ed è proprio questo a costituirne il fondamento etico.
Ad esempio: se scelgo di aiutare una persona in difficoltà, la mia azione non può avere scopo altro, fine altro, al di fuori del fatto che ritengo positivo portare aiuto. Lì ed ora.
Del tutto differente è se quell’aiuto io lo elargisco in funzione di un tornaconto, perché magari la persona che aiuto mi potrebbe garantire un premio, o essermi utile in futuro.
Sarebbe allora il premio che ne riceverei, a determinare la mia volontà di agire. E se per avere quel premio dovessi fare l’esatto contrario, lo farei.
È questo utilitarismo il regno dell’eteronomia morale, che proprio nell’uso strumentale dell’azione, ne vanifica la moralità ponendo il fine (telos) al di fuori dell’azione stessa.
Ma non solo! Agendo così, uso strumentalmente anche me stesso, assoggettando la mia scelta ad altro/altri. A un potere esterno, la cui assolutizzazione è proporzionale alla povertà della mia autonomia morale.
La fondatezza della scelta non può allora risiedere nella obbedienza/adeguamento a una autorità infallibile e indiscutibile, dispensatrice di ricompense finanche differite in un qualche immaginifico cielo dopo la morte. Ed è questo il massimo dell’eteronomia, nella subordinazione a precetti codificati da un qualche potere clericale che pretende di averne il sigillo morale.
In nome di assoluti, nell’esaltazione del «Dio lo vuole» l’umanità ha commesso e continua a commettere le peggiori atrocità.
Ed è la stessa logica dissennata di chi eleva un qualche “libro sacro” a legge universale farneticando scontri di civiltà e seminando terrorismo: per imporre al mondo il suo totalitario ordine politico-sociale.
Un mondo dominato dal narcotico di un pensiero unico e di un’univoca morale. Un mondo dove ognuno, in una sorta di automatismo psichico, obbedisce a chi ha stabilito per lui cosa è bene e cosa è male. Una volta per tutte e universalmente.
Così che ogni alterità va eliminata, fagocitata, schiacciata in un totalitario replicante assoluto identitario io, che tarpa e ingabbia ogni esistente.
Al contrario, se si assume come strategia etica il principio laico della verificabilità, è chiaro che ogni segmento della praxis obbliga a continue rivisitazioni nell’io, e alla comunicazione dialogica con ciascun altro io. In una correlazione in cui anche l’io si oggettiva e si vede come un tu.
Solo così l’egoità si apre alla visione degli esistenti possibili. È l’occhio che guarda l’altro occhio di memoria socratica (Platone, Alcibiade I), e specchiandovisi vede sé stesso non per cercare replicanti, ma per rendere realistico quel conosci te stesso (γνῶθι σαυτόν – gnōthi sautón), che non a caso nel mondo greco era anche augurale saluto a cercare di conseguire comune saggezza e serenità: nel sistematico esercizio di dubbio e scelta: radici laiche della democrazia. Nel reciproco riconoscimento che, come Kant affermava nella Fondazione della metafisica dei costumi: «non possiamo essere costretti da altri a nulla più di ciò a cui possiamo reciprocamente costringerli».
Su queste basi lo stato liberal-democratico, al controllo sulle coscienze ha sostituito il diritto umano all’autodeterminazione nell’individuazione solidale delle libertà, che divengono accrescimento della comunità dove ogni singolarità si riconosce nel bene comune della laicità, per promuovere prospettive multiple e plurali di esistenza nella pari dignità.
E non a caso il riconoscimento della pari dignità è l’incipit della Dichiarazione universale dei diritti umani che in essa individua il fondamento su cui edificare libertà, giustizia, pace: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
E vale appena ricordare che la Costituzione della Repubblica italiana, promulgata un anno prima (27 dicembre del 1947), pone la pari dignità in corrispondenza dell’uguaglianza in quel formidabile articolo 3 che di essa è pilastro e disegno: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Un articolo questo che è nel contempo di denuncia per quanto c’è da costruire, e di chiamata all’azione nell’individuare le disuguaglianze e all’impegno a spazzarle via.
Si chiama giustizia e uguaglianza, senza le quali la libertà è parola vana. Chi non dispone delle stesse possibilità di sviluppo, non ha infatti lo stesso potere. Infatti, chi si vede negate le pari opportunità per la sua emancipazione individuale e sociale, si vede negata anche la pari dignità.
E contro tutto questo, la nostra Costituzione fonda la parità di cittadinanza democratica, vincolando alla rimozione degli ostacoli che ne siano d’impedimento. Solo così la pari dignità si fa strada nel dovere sociale della realizzazione della paritetica ed equipollente uguaglianza.
È in questa prospettiva che la dignità di ciascuno diviene bene irrinunciabile per la società, e su questo bene comune si diventa costruttori di democrazia.
La giustizia sociale, la lotta ai pregiudizi, agli stereotipi, al conservatorismo reazionario di chi sogna mondi patriarcali e società gerarchizzate e razziste, è incardinata in questo caposaldo costituzionale per far sì che ognuno sia pienamente padrone della propria vita.
È infatti l’individuo storico concreto a essere portatore di dignità. Perché ricongiunto alla sua corporalità. E in questa si pensa sceglie agisce.
È il suo habeas corpus che riporta l’attenzione sull’individuo nella sua fisicità: proprietario del proprio corpo: unicità storico-biologica della singolarità contro assolutistici moduli cui adeguarsi.
Un habeas corpus che implica il diritto all’autodeterminazione e con esso il riconoscimento giuridico di individualità uniche e diversificate come legittimazione stessa della democrazia di cui la laicità diviene anima e motore.
Infatti, se l’astrazione di individuo ha costituito il presupposto del principio giuridico dell’uguaglianza tra gli individui, è nella riappropriazione della propria corporalità che si è fatta strada la consapevolezza del diritto di ognuno di sviluppare autonomia esistenziale nel principio laicità.
Allora, se da una parte possiamo e dobbiamo dialogare per edificare la civile e pacifica convivenza democratica; dall’altra, dobbiamo avere il coraggio dell’intransigenza contro la pretesa totalitaria di chi vorrebbe far coincidere i diritti umani con i doveri confessionali con relativa imposizione di usi e costumi incompatibili con la democrazia.
Laicità quindi non è neutralità, ma forza e garanzia per un’organizzazione sociale a vantaggio di tutti. È qui che oggi si gioca la partita fondamentale nel creare l’appartenenza nella cittadinanza. E la si vince quando lo Stato diviene luogo dell’incremento dei diritti umani sul cui maggiore o minore ampliamento si giudica l’affermazione di quella dignità individuale e sociale, che oggi si declina anche in termini di accesso alle nuove dimensioni biologico-sanitarie e a quelle scoperte scientifiche e applicazioni tecnologiche che permettono sempre più di essere padroni della propria esistenza senza arrecare danno ad altri.
Pertanto, fondare all’insegna della laicità l’interrelazione umana è quanto mai urgente per contrastare chi, col proibizionismo della norma ad una dimensione, impedisce di sottrarre all’inferno sulla terra sempre più spicchi di esistenza: più libera e giusta.
A conclusione di Le città invisibili, Italo Calvino ci lascia questo ammonimento: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Del resto, come scriveva J. S. Mill in On Liberty (Sulla libertà) preoccupandosi dei danni del conformismo: «Gli individui umani traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio, che dal costringerlo a vivere come sembra meglio ad altri».
Potrebbe essere una buona bussola di orientamento laico. Soprattutto quando il confessionalismo suona costantemente le proprie campane per affermare una omologazione a tutto vantaggio della identitaria cittadella della sua fede.
Qualora questo accadesse, il rapporto tra individuo e Stato sarebbe di discriminazione e non di inclusione nella cittadinanza. Qualche esempio per riflettere insieme.
La castità per il cattolico è sempre viatico di grazia per la conquista del cielo, e il rapporto sessuale è giustificato solo al fine di procreare (Catechismo, titolo II). Il credente faccia pure. Anzi è proprio la laicità dello Stato a tutelarlo in questo.
Ma sarebbe accettabile se si vietasse o boicottasse l’uso degli anticoncezionali in omaggio al canone 2370: «É intrinsecamente cattiva ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo e come mezzo, di impedire la procreazione»?
E, visto che secondo il catechismo ogni donna sarebbe strutturata nell’ontologia del modello del fiat mariano, dobbiamo eliminare le leggi sull’interruzione volontaria di gravidanza? Già per altro minata – in ossequio al Vaticano – dall’introduzione dei medici obbiettori. E ancora, se il catechismo cattolico continua a definire l’omosessualità oggettivo disordine morale (canone 2357), e invita gli omosessuali a vivere nel «sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (canone 2358), cosa dovrebbe fare lo Stato democratico? Aiutarli ad espiare escludendoli dall’accesso ai diritti?
E se il confessionalismo dominante diventasse quello di un altro gruppo che impone l’escissione ai genitali delle bambine? Fornire un servizio medico che garantisca questa barbarie? Oppure continuare a chiudere occhi e cervello di fronte al fatto che indossare il velo – bandiera dell’islam politico – è segno patente della sottomissione delle donne? E non è falsità continuare col mantra che hijab, burka, chador – o come altro si vuole chiamare il velo islamico – sono le stesse donne a indossarli?
Ma dopo secoli e secoli che una tale abitudine è inculcata fin dall’infanzia, ce la sentiamo onestamente di poter affermare che non è il risultato ancora più subdolo con cui si maschera l’indottrinamento per scelta personale?
Usi e costumi non sono eterni e non possono essere utilizzati come ipocrita accondiscendenza verso i Paesi islamici, per il fatto che abbiamo con loro interessi commerciali. Paesi dove oggi c’è un grande fermento, in particolare delle donne, per conquistare libertà e autodeterminazione, opponendosi alla tirannide della sharia che identifica norma religiosa con legge statale.
Ecco allora che tenere la barra ferma sulla laicità, garanzia di libertà giustizia uguaglianza e quindi motore di emancipazione dalla soggezione, non solo serve a contrastare il patriarcato di casa nostra, ma aiutare l’accesso alla parità di quelle “immigrate” che cercano di uscire dalla “segregazione amichevole” in cui sono tenute dal clan religioso-familiare.
I detentori degli Assoluti ci accusano di relativismo morale. Ma, a pensarci bene: rinserrarsi in gabbie di enunciati, sottratti ad ogni dimostrabilità e riscontro, ma spacciati come veri per fede, non è il massimo del relativismo?
A chi ancora oggi pretende di porre come essenze immutabili una costruzione di modelli comportamentali ancorandoli alle idee assolute di Dio – Anima – Mondo, bisogna ricordare che il fondamento di tutto questo è solo mera concatenazione di supposizioni, che per il fatto di essere pensate e assolutizzate non possono avere automaticamente garanzia di essere vere. Si tratta di enunciati, di connessioni linguistiche sigillate nella fede.
Ma i paladini del confessionalismo morale non vogliono accettare che sempre più individui possano prendere coscienza, che attraverso gli assoluti morali si perpetuano i rapporti di potere dominanti!
Una presa di coscienza che nella modernità, inizia a imporsi con la rivoluzione di quel Sapere aude: «Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!» con cui Kant sintetizzava l’importanza dell’Illuminismo. Che alla consuetudine dell’ordine costituito sulla cieca obbedienza contrapponeva l’uso pubblico della ragione per affermare in un’Europa ancora imbrigliata di medioevo il coraggio della ragione.
Iniziava, come si suol dire la separazione tra leggi umane e leggi divine, sottraendo così al precetto il ruolo di ordinatore del mondo. Mentre in parallelo secolarizzazione e laicizzazione si facevano strada contro la norma a una dimensione per fare spazio alla discussione e relatività delle norme.
Relativismo e secolarizzazione non sono allora il “demoniaco” da rifuggire, ma la constatazione che proprio dalla liberazione degli assoluti si può produrre una società più giusta. Dove finalmente, potremmo riappropriarci del significato originario della parola ethos, come «posto del vivere concreto», per essere creatori di norme che garantiscano a tutta la comunità sempre migliori possibilità di convivenza democratica, nel patto laico di cittadinanza che la garantisce. Dove, nessuno può pretendere che i principi morali di una qualsivoglia chiesa vengano trasformati in precetti ispiratori del Diritto. Quando questo accade, si crea un corto circuito di tale portata che anche la democrazia ne è fulminata.
Ecco allora l’importanza della tensione dubitativa, che guarda ovunque e scopre l’inusuale: nell’esercizio alla curiositas di una mente che si affaccia sul mondo senza fini precostituiti. Nella forza di un pensiero che sa porsi di traverso contro il bieco utilitarismo che vuole servi consenzienti.
Allora si scopre il turbamento di quel pensiero che è agitazione, turbinio di idee, contrasto, contraddizione. Pensiero che diverge. Che ci spinge a intraprendere altre strade, anche quando sembra impossibile che ve ne siano, oltre quelle rassicuranti che ci tengono nell’eterna minorità mentale, invischiati e narcotizzati nella massa acquiescente.
Ora et labora, si diceva all’uomo del medioevo, così non contraddiceva il precetto e non peccava. Produci e compra, ci dice un turbocapitalismo dove tutto è merce nel meccanismo denaro-potere-denaro, mentre avanza la pulsione al livellamento del riduzionismo culturale: affinché la ragione divenga, come già denunciavano Horkeimer e Adorno «un semplice accessorio dell’apparato economico onnicomprensivo».
Eppure possiamo dire: «No. Non è così!»; «No. Voglio un’altra cosa!». Per questo occorre riappropriarsi della concretezza del pensiero.
Noi ragioniamo per idee, “vediamo” con le idee. Atto fisico di intellezione. Ricordate l’Odissea, quando Ulisse torna a Itaca ed è riconosciuto dal suo cane Argo? Il verbo greco che Omero usa è noeìn (νοεῖν Odissea, XVII, 301) ed esprime l’azione dell’intellezione.
Argo non è ingannato come tutti gli altri dal travestimento di Ulisse. Argo connette intelligentemente la realtà fisica col pensiero e nella sua mente si configura l’idea di come stanno effettivamente le cose. L’idea che ne scaturisce è risultato del nesso tra realtà e rappresentazione mentale di ciò che è. Pensare e pensarci nella nostra fisicità apre al nesso tra pensiero e azione nell’assunzione della responsabilità per quel che affermiamo e facciamo.

L’autrice: Maria Mantello è giornalista e saggista, presidente della Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno”. Tra i suoi saggi, “Sesso Chiesa Streghe (Fefé editore 2022)