Abubaker Abed, 21 anni, con la voce che trema ma non si spezza, ha gridato l’ovvio davanti a un mondo che tace. “Quanti giornalisti dovranno ancora morire per scuotere le vostre coscienze? E se fossimo ucraini, bianchi con gli occhi azzurri?”. Un’osservazione che taglia come un bisturi. Non è un invito alla solidarietà, è una denuncia senza attenuanti.
Da ottobre, più di 200 operatori dell’informazione sono stati uccisi nella Striscia di Gaza. Non vittime accidentali, ma bersagli. I giubbotti con la scritta “Press” non proteggono più, sono diventati bersagli mobili per i cecchini israeliani. Cronisti come Sa’ed al-Nabhan, colpito mentre raccontava il soccorso a dei feriti, sono l’emblema di un giornalismo che non si arrende, neanche davanti alla morte.
Ma le immagini di corpi mutilati e occhi spenti non bastano. Non bastano a un’opinione pubblica occidentale che riconosce il dolore solo se è familiare, se ha tratti europei. Abed lo ha detto chiaro: se quei reporter fossero stati biondi e con gli occhi azzurri, le loro morti avrebbero suscitato indignazione globale. Perché la morte palestinese, ormai, non fa rumore.
Non è solo una questione di coscienze. È una questione di responsabilità. I governi che forniscono armi a Israele, i media che filtrano la tragedia attraverso il prisma di una narrativa unilaterale, le istituzioni che scelgono il silenzio: tutti complici.
“Il giornalismo non è un crimine”, ha ricordato Abed. Eppure, a Gaza, sembra esserlo. Qui eravamo tutti d’accordo fino a ieri. Per Gaza non vale.
Buon lunedì.