È quanto mai necessario costituire un tavolo permanente per arrivare ad una discussione vera sulla povertà del lavoro che riguarda milioni di persone, in particolare donne e giovani. L’Esecutivo Meloni non crede nel dialogo con le forze sociali. Ma il dialogo sociale è il percorso ineludibile

La settimana passata ci ha consegnato la notizia che l’avvocato generale della Corte di giustizia Ue, Nicholas Emiliou, ha definito la direttiva dell’Unione Europea sul salario minimo “incompatibile” con il Trattato dell’Unione; essa violerebbe le competenze nazionali degli Stati membri sul fronte della retribuzione salariale e del diritto di associazione. Ora, non è che questa normativa sia stata abolita. Quello dell’avvocato generale è un parere legale che, tuttavia, ne chiede esattamente l’abolizione.
Un primo punto da mettere in evidenza è come si sia arrivati a tale parere dell’avvocatura. Esso scaturisce da un ricorso presentato dalla Danimarca e sostenuto, poi, dalla Svezia. Paesi che hanno una caratteristica in comune con l’Italia. Vediamo perché.

La Direttiva, è necessario ricordarlo, punta in primo luogo all’estensione della contrattazione collettiva. Con l’obiettivo di far sì che i Paesi dell’Unione Europea arrivino a garantire una copertura dell’80% della contrattazione collettiva. Ciò già avviene in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Spagna e Svezia. Ecco la caratteristica comune tra Italia, Danimarca e Svezia. Al disotto di tale soglia, la direttiva dispone che gli Stati attuino, previa consultazione delle parti sociali, un piano d’azione per la promozione della contrattazione collettiva. Insomma, la normativa tenta innanzitutto di valorizzare il ruolo della contrattazione collettiva nel processo di universalizzazione delle tutele salariali.
Ebbene, due Paesi nei quali il sistema della contrattazione collettiva è molto avanzato, come nel nostro – che ha comunque ratificato la norma – hanno denunciato la direttiva per violazione delle competenze nazionali degli Stati riguardo a retribuzione e diritto di associazione. Paesi, va detto, ben inseriti nel processo di integrazione dell’Unione, al contrario di altri, come l’Ungheria, alfiere del sovranismo, che pratica uno sfacciato dumping salariale.
Vedremo come andrà a finire, ma c’è da dire che, in generale, la Corte europea ha la tendenza ad accogliere i pareri dell’avvocatura.
Intanto l’Italia, pur avendo, come detto, ratificato la direttiva, non ha però adottato una legislazione in merito al salario minimo. Cosa fare, dunque?
La nostra convinzione, che sosteniamo da tempo, è che sia necessario costituire un tavolo permanente per arrivare ad una discussione vera sulla povertà del lavoro che riguarda milioni di persone, in particolare donne e giovani, prima di tutto nei settori del terziario, che vedono, in questo passaggio storico la maggiore crescita dell’occupazione. Area nella quale si annida maggiormente il lavoro nero, a tempo determinato e stagionale, part-time, ossia l’area del sotto-salario. In secondo luogo, sosteniamo da tempo la necessità di recepire per legge, per prima cosa, i minimi salariali dei contratti maggiormente rappresentativi.
Il quadro, come risulta evidente, è estremamente complesso. L’Esecutivo Meloni, non c’è dubbio, non crede particolarmente nel dialogo con le forze sociali. L’unità d’intenti dei sindacati segna un momento di crisi evidente e accordi separati. Il rinnovo di molti contratti è fermo anche in conseguenza della situazione del tessuto produttivo, che rischia di precipitare. E la questione dei salari e del potere d’acquisto in Italia è di una gravità estrema.
Aldilà, dunque, del processo di integrazione europea, resta quantomai necessario che tutti si impegnino, in primo luogo, a tener fede alla Costituzione repubblicana che stabilisce all’articolo 36 che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. E, al 39, il compito dei sindacati, ai quali è demandata la rappresentanza dei lavoratori. Rappresentanza che richiede, senz’altro, se ne parla da tempo immemore, una regolazione di legge.
In ogni caso, il dialogo sociale è il percorso ineludibile – e, oggi, quantomai urgente – per attuare i diritti irrinunciabili di chi lavora per vivere.

Il fermaglio di Cesare Damiano
L’autore: già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare